Economia / Ttip, non è per niente una panacèa l’accordo di libero scambio tra Europa e Stati Uniti

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Perché sul TTIP quello che ci dicono non è sempre vero e ci nascondono invece ciò di cui preoccuparci? Queste sono le domande che ci dobbiamo porre e dobbiamo porre ai governi nazionali ed a quello europeo. Il TTIP, acronimo del nome inglese “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, è un accordo di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Il trattato è in fase di discussione sin dal 2013 (anche se ben 10 anni prima ne erano state gettate le basi). Per alcuni prevede che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa Unita si pieghino alle regole del libero scambio stabilita da e per le grandi aziende europee e statunitensi, per altri faciliterebbe i rapporti commerciali tra Europa ed USA portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni ed anche dell’occupazione.ridotta TTIP

Secondo il neo ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, “una competenza chiave dell’Europa era quella di affrontare gli accordi di libero scambio proprio perché metteva in risalto la nostra dimensione continentale”.

Ma il problema non è questo: la necessità di veri e moderni accordi non è messa in discussione. Quello che colpisce e che crea la reazione, non sempre infondata, degli oppositori è la segretezza che è stata, e continua ad esserlo, uno dei maggiori punti di forza dei contrari.

Ciò che la gente, ma anche i governi, vogliono sapere è cosa e come si vogliono organizzare gli scambi bilaterali eliminando tutti i dazi esistenti.

Diversi studi hanno concluso che l’accordo avrà benefici effetti sia per l’UE che per gli Stati Uniti prevedendo un aumento del PIL mondiale stimato tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro con un beneficio annuo di 545 euro in più per ogni famiglia europea, ma i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo.

Visto così l’accordo sembra la panacea di tutti i mali dell’economia di molti paesi europei. Come per tutte le cose della vita però c’è il rovescio della medaglia basato principalmente sulla segretezza e mancanza di trasparenza della trattativa in corso. La preoccupazione principale delle analisi è che comunque l’armonizzazione delle norme sarebbe fatta al ribasso, a vantaggio non dei consumatori ma delle grandi aziende o, peggio, delle grandi lobby americane.

Le critiche più diffuse sono:

– I paesi dell’UE hanno adottato le normative dell’Organizzazione dell’ONU che si occupa di lavoro (l’ILO), gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori.

– L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM.

– Il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese, e in generale per le imprese che non sono multinazionali e che con le multinazionali non potrebbero reggere la concorrenza.

– Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo o class action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli OGM, questa critica viene sollevata relativamente all’uso di pesticidi, all’obbligo di etichettatura del cibo, all’uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori.

– I negoziati sono orientati alla privatizzazione dei servizi pubblici, quindi, secondo i critici, si rischia la loro scomparsa progressiva. Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera concorrenza.

Purtroppo le obiezioni sembrano parecchio fondate anche perché si vuole creare un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali. L’aspetto più rischioso è dato dalla differente concezione esistente in Europa o negli Stati Uniti sulla difesa del welfare, gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all’accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l’acqua, previdenza e pensioni, sarebbero tutti esposti a ulteriori privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economico-finanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. Senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato.

D’altra parte, perché dovremmo pensare che gli USA, molto più potenti e contrattualmente forti si dovrebbero piegare alle nostre esigenze, considerando che sono tra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute, o dell’ambiente come il Protocollo di Kyoto appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione?

Da molti anni non solo movimenti, associazioni, reti sindacali ma anche istituzioni internazionali come FAO e UNCTAD, le agenzie ONU che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, richiamano l’attenzione sul fatto che rafforzare i mercati locali con programmazioni regionali e locali più attente, basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e soddisfare i bisogni essenziali per far vivere dignitosamente più abitanti possibile della terra, potrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi economica, ambientale, ma soprattutto sociale, che stiamo vivendo, prevedibilmente, da tanti anni.

Stiamo facendo finta di niente, continuando a percorrere strade, come quella della iperliberalizzazione forzata stile TTIP, che fanno male non solo al pianeta e alle comunità umane, ma allo stesso commercio che è in contrazione dal 2009 e non si sta più espandendo.

Uno studio della Tufts University del Massachusetts mette addirittura in discussione gli impatti positivi del trattato, evidenziando l’effetto di disarticolazione del mercato interno europeo, di depressione della domanda interna e della conseguente diminuzione del PIL europeo. Secondo la stessa Commissione Europea tra i contenuti del trattato di partnership commerciale ci sarà l’introduzione di un arbitrato internazionale (denominato ISDS-Investor-state dispute settlement) che permetterà alle imprese di intentare cause per «perdita di profitto» contro i governi dei paesi europei, qualora questi portassero avanti legislazioni che potenzialmente possano mettere in discussione le aspettative di profitto delle stesse imprese.

Inoltre, alcuni economisti, utilizzando diversi modelli econometrici, ritengono che il TTIP possa portare ad un calo dei salari nonché ad un aumento della disoccupazione e della disgregazione sociale in Europa; una lettura contraria a quella presentata dalla Commissione europea, secondo la quale il TTIP potrebbe portare ad un calo della disoccupazione e ad un aumento degli investimenti.

Siamo convinti che non saranno le popolazioni degli stati europei a fermare, o quantomeno a “governare”, il TTIP. Ma stare zitti non è certamente la soluzione del problema. Bisognerebbe parlarne tanto, principalmente nei grandi network della comunicazione, per far si che i singoli governi, prima, ed il parlamento europeo, ed in particolare la Commissione europea, possano riflettere sul futuro sociale ed economico delle popolazioni che, in atto, non possono vedere un roseo futuro per i prossimi cinquanta anni.

Abbiamo l’obbligo di pensare, oggi, ai nostri figli ed al loro futuro. Non si può stare zitti. È quindi indispensabile portare, subito, il TTIP sotto il controllo “politico” dei governi, non si può lasciare il futuro dell’umanità solo nelle mani di pochissimi burocrati.

Pippo Sorrentino

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