Sono 30 le “Storie di chiese, storie di comunità” che – in un libro – raccontano di come negli ultimi decenni sono stati pensati, progettati, costruiti e in alcuni casi già trasformati gli edifici di culto italiani. Un volume, nato dall’esigenza di avere a disposizione criteri di valutazione e interpretazione delle chiese contemporanee, che oggi può diventare un prezioso vademecum per chi si trova coinvolto nella costruzione o nell’adeguamento di un complesso parrocchiale. Ne parliamo con l’autore, l’architetto Andrea Longhi.
“Un edificio di culto, griffato o anonimo che sia, è affidato ad una comunità. E la qualità di un progetto non sta solo nella capacità di prevedere tutti i problemi. Progetti che potremmo definire inclusivi, progetti che sanno assorbire delle cose che non erano state previste, solitamente sono frutto comunque di un dialogo approfondito con le comunità”. Ne è convinto Andrea Longhi, storico dell’architettura e docente al Politecnico di Torino, autore del libro “Storie di chiese, storie di comunità. Progetti, cantieri, architetture” (Gangemi Editore) che viene presentato oggi, giovedì 18 gennaio, a Roma. Nel volume sono raccolte 30 storie relative ad edifici di culto costruiti in Italia appena prima o nei 50 anni successivi al Concilio Vaticano II.
Professore, com’è nato questo libro?
Da un progetto dell’allora Servizio per l’edilizia di culto della Cei, guidato all’epoca da mons. Giuseppe Russo, che ha portato alla realizzazione della rubrica “Una Chiesa al mese”. C’era l’esigenza di mettere a punto criteri di valutazione e interpretazione delle chiese contemporanee che non facessero unicamente riferimento a questioni di gusto personale e neanche a categorie di tipo formale, storico-architettonico. L’idea era quella di far incontrare un’analisi di tipo storico-architettonico con una dimensione più sociale dell’architettura. Si voleva cercare di introdurre una lettura di tipo pastorale, sociale e istituzionale dell’architettura delle chiese. E l’unico modo per riuscire a fare questo percorso era quello di raccontare storie vere, reali andando sui posti.
In che modo lo avete fatto?
Partendo da una rete di contatti con studiosi, con responsabili regionali si è cercato di individuare 30 storie diverse: si va dalla chiesa della località di villeggiatura turistica alpina a quelle nelle periferie metropolitane. Questo viaggio attraverso l’Italia, in 30 piccole sequenze, restituisce una complessità: sono coinvolte tutte le regioni italiane e tutte le fasi storiche, da subito prima del Concilio Vaticano II fino al 2010. Abbiamo voluto parlare con i parroci, perché potessero esporre le cose convincenti ma anche quali erano stati i problemi e le difficoltà. E il libro non nasconde i fallimenti, le difficoltà, gli insuccessi.
Cosa caratterizza le storie che avete raccontato?
Le 30 storie sono state scelte non solo sulla base della qualità architettonica degli edifici ma per la pluralità dei percorsi fatti: ci sono stati importanti concorsi, incarichi diretti; sono stati coinvolti professionisti che hanno progettato molte chiese nella loro vita, altri attivamente impegnati nella vita ecclesiale, altri ancora che hanno progettato una sola chiesa per caso. Qualche progettista ha sviluppato un rapporto bellissimo con il parroco che si è protratto per decenni, altri hanno avuto un rapporto conflittuale e sono stati allontanati e sostituiti. Oltre a questo abbiamo riscontrato percorsi di pratiche o di finanziamenti tortuosi ma anche un grande coinvolgimento della popolazione. Storie diverse a cui nel libro è affiancata una riflessione: un percorso dal basso verso l’alto.
Quale?
Sono emersi alcuni temi che abbiamo raccolto in capitoli nei quali si ragiona sulle figure istituzionali, sul rapporto con la liturgia, con gli artisti, con l’urbanistica, con il paesaggio. Il libro è una sorta di vademecum, un grande promemoria per chi si trova coinvolto nella costruzione, nella trasformazione o nell’adeguamento di un complesso parrocchiale. Perché l’agire architettonico della Chiesa si traduce in mille attività edilizie nelle 26mila parrocchie italiane. Nel libro sono presentati percorsi, problemi, tematiche per sottolineare che l’elenco delle cose da affrontare è lungo, ma è affrontabile.
L’importante è non dare carta bianca all’architetto né al parroco, ma creare un percorso, capire che la chiesa diventa un luogo di coralità, di competenze, di discussione.
Anche perché l’architettura non è un manufatto ma un processo, che non finisce mai.
In che senso?
Uno degli aspetti più belli, dal mio punto di vista, è stato indagare ciò che succede dopo che l’architetto va via e, in alcuni casi, anche il primo parroco va via. Una metafora, che ha anche ispirato il libro, è quella del noto architetto Rafael Moneo che ha scritto “La solitudine degli edifici”: un architetto e il committente, che sono il padre e la madre, sviluppano un rapporto empatico con il proprio edificio quando lo progettano, lo disegnano, lo costruiscono. Poi, finito l’edificio, l’architetto va a progettare un’altra cosa, e spesso il committente, nel caso dei parroci, cambia parrocchia. Così l’edificio resta solo. È affidato alla comunità, viene consegnato alle cure della comunità. In quel momento si capisce se il progettista ha progettato per sé o pensando per qualcuno che userà quell’edificio per anni.
Cosa deve avere un progetto “vincente”?
Un bel progetto sa prevedere che, se una chiesa mira a diventare punto di riferimento per una città, nasceranno tutta una serie di istanze non prevedibili razionalmente.
Un bel progetto è quello che saprà assorbire nuove esigenze, nuove trasformazioni.
Non con quella tecnica un po’ anni Settanta di fare uno spazio multifunzionale che vada bene per qualsiasi cosa ma che sappia produrre un’esperienza spaziale che col cambiare delle persone e della comunità dia il modo ad ognuno di portare un contributo nuovo a quella architettura.
È stato così per le 30 chiese che avete raccontato?
Alcuni edifici presentati nel libro sono invecchiati meglio, perché hanno saputo assorbire in maniera ricca provocazioni nuove. Altri sono invecchiati in maniera un po’ più traumatica, in alcuni casi con trasformazioni o interventi maldestri che li hanno stravolti. Il tema affrontato nel libro è quello della progettualità ospitale, disponibile all’imprevisto.
Che le chiese siano spazio di attesa non è solo un modo di dire filosofeggiante; sono spazi d’attesa perché non si sa come si celebrerà fra 30 anni o come saranno le nostre comunità fra 40 anni.
Architettura e comunità, un binomio interessante…
Il tema della comunità non è affrontato nel libro. Ma si tratta di capire, quando noi parliamo di comunità, a cosa facciamo riferimento: ai praticanti domenicali? Agli abitanti del quartiere? A chi, in qualche modo, si riconosce in un’esperienza di spiritualità? In città, ma anche in campagna, gli interlocutori sono tanti, perché la chiesa è un luogo di passaggio, un luogo di sacramenti anche per chi non ha una frequentazione assidua. E poi la chiesa è un pezzo di paesaggio, un luogo identitario. E le scelte in funzione di quale comunità sono fatte? Inoltre il tema della mobilità fa superare il fatto che uno frequenti una parrocchia per comodità territoriale. E presto influirà anche il mondo della spiritualità digitale. Sono frontiere in cui l’architettura ha bisogno di essere alimentata da riflessioni. In una società in cui uno si muove, cerca esperienze, si va a scegliere non solo il parroco che fa l’omelia che gli piace di più ma anche il luogo dove si sente più accolto. E in questo senso la pluralità è certamente una ricchezza.
Alberto Baviera