Editoriale / La riscoperta della comunità, eredità della pandemia

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Pandemia
Foto Sir/Marco Calvarese

«La fine della pandemia è in vista». Parola di Mario Draghi. E se il premier sempre molto parco nelle dichiarazioni fa un’affermazione di questo genere c’è da credergli. L’ex presidente della Bce, infatti, non è tra coloro che credono o vogliono far credere che basti l’approvazione di un decreto per cambiare la realtà. Come dimenticare chi aveva festeggiato la “sconfitta della povertà” con l’entrata in vigore di una certa norma? Egli sa benissimo che la realtà si cambia solo con fatti precisi, decisi e magari sviluppati nel tempo. Fatti che in questo caso, piaccia o no, si chiamano vaccini.

E sono molte le riaperture che confermano questa realtà: dai cinema ai teatri, dalle scuole ai trasporti. E così da più parti si saluta con comprensibile sollievo il progressivo ritorno alla normalità. Ma quale normalità?

Ce lo siamo detti più volte e in più occasioni ci siamo reciprocamente messi in guardia: guai se pensiamo che, finita questa tragedia, tutto possa tornare “semplicemente” come prima.
C’è da chiedersi allora se in questo anno e mezzo di pandemia abbiamo davvero imparato qualcosa. E se siamo in grado di fare memoria di questo lungo tempo che ha segnato profondamente le nostre vite.

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Foto Sir/ Marco Calvarese

La pandemia ci ha fatto sentire più comunità

E’ una domanda per la quale non c’è una risposta univoca. I vissuti personali, lo sappiamo, sono stati molteplici e differenti. A livello collettivo però, forse, è possibile distillare qualcosa di comune. Le varie fasi che abbiamo attraversato in questi mesi, dal lockdown in avanti, ci hanno, infatti, visto esprimere insieme un sentire condiviso come poche volte era successo in passato. Siamo stati generalmente ordinati, comprensivi, attenti alle indicazioni governative. Molte persone hanno dimostrato nella quotidianità una generosità non comune. E’ così emersa tutta la ricchezza di un popolo che spesso non sa riconoscere i propri talenti.

Tutto bene dunque? Non proprio e lo sappiamo. Ma essere consapevoli che questa prova ha anche tirato fuori il tanto di buono che gli italiani hanno e sanno esprimere, fa bene e ci lascia guardare al futuro con un po’ di fiducia. Se volessimo riassumere tutto questo con una espressione, potremmo dire che la pandemia ci ha fatto sentire più comunità. Ci ha fatto intuire che essere insieme comporta dei doveri e delle responsabilità che magari non sempre capiamo o condividiamo. Ma che in alcune situazioni il “noi” deve prevalere sull’ “io”, un “noi” dove qualcuno (chi ci governa) ha la difficile responsabilità di orientare. La pandemia ci ha quasi sbattuto in faccia da un lato la necessità dell’essere insieme (non ci si salva da soli) e dall’altro l’inevitabilità dell’essere insieme, tanto che non ci si può chiamare fuori dall’essere comunità e dall’assumerne le regole che la governa.

In gioco la sicurezza collettiva

La grande fatica che il Paese sta vivendo sulla vicenda dei vaccini e del green pass è emblematica a tale riguardo. I dubbi, le paure e le resistenze sono comprensibili e ciascuno può accampare delle motivazioni che possono anche avere dei fondamenti. Il tema poi del green pass nei luoghi di lavoro è sicuramente molto delicato. Bisogna capire però cosa c’è in gioco. C’è la sicurezza collettiva, il non diventare un pericolo per gli altri e non compromettere i grandi sforzi che l’intero Paese ha fatto in questi mesi.

Il Paese sta uscendo dalla pandemia e stiamo ricominciando a guastare una libertà che non assaporavamo da tempo. Tutto questo, lo dicono in modo incontrovertibile i numeri, lo si deve principalmente ai vaccini. Siamo tutti più sicuri. Anche i no vax. Si può ripartire da qui per intuire che essere in comunità comporta degli oneri dai quali, piaccia o no, non ci si può esimere.

Lauro Paoletto
direttore “La Voce dei Berici” (Vicenza)

 

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