Educazione religiosa / L’Europa ha scelto la privatizzazione ma occorre combattere contro la radicalizzazione

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educazione religiosa (Michael Kuhn)
Michael Kuhn dello staff del Comece

Michael Kuhn (Comece) spiega che tutto nasce dalla spinta alla laicità con la conseguenza di un insegnamento sempre più radicalizzato e sottratto allo sguardo pubblico. Occorre , invece, “condividere e scambiarsi tra gli Stati Membri le ‘best practice’ realizzate. Occorre incontrarsi e parlare su cosa possiamo fare per combattere la radicalizzazione, come educare alla tolleranza religiosa”.

Insegnamento delle religioni a scuola e lotta al radicalismo: per ora sembra un argomento tabù. Eppure dopo gli attentati di Parigi, l’Europa si sta chiedendo cosa la scuola stia facendo e possa fare per favorire e promuovere tra i giovani una cultura dell’incontro. Il dibattito è aperto: in Francia il ministro dell’Educazione ha annunciato l’avvio di una formazione specifica degli insegnanti finalizzata all’insegnamento della laicità e della cittadinanza. In Belgio molti stanno chiedendo di sopprimere i corsi di religione per rimpiazzarli con lezioni di filosofia e cittadinanza. In Lussemburgo, invece, gli attuali corsi di religione o formazione morale saranno sostituiti da un corso di “educazione ai valori”. Michael Kuhn fa parte dello staff della Comece, la Commissione degli episcopati dell’Unione europea e segue in modo particolare le questioni relative proprio all’educazione, alla cultura e alle politiche giovanili.

È colpa anche della scuola e della mancanza di cultura se il radicalismo ha presa sui giovani in Europa?
“La risposta avrebbe bisogno di una riflessione articolata. Le potrei rispondere: sì e no. E per diverse ragioni. Se guardiamo ai luoghi in cui la radicalizzazione ha luogo e dove è più avvertita la sua minaccia, la risposta è che la radicalizzazione ha presa soprattutto sui giovani che sono di fatto fuori dalla scuola. Abbiamo un numero di ragazzi che escono dai percorsi di studio: alcuni li abbandonano molto presto; altri non riescono a finire l’iter educativo. Sono ragazzi non scolarizzati che molto difficilmente riescono a entrare nel mercato del lavoro. Sono giovani marginalizzati e questo sicuramente li porta a essere gli obiettivi privilegiati della radicalizzazione perché nelle idee radicali trovano una sorta di sicurezza e protezione, l’idea di poter essere qualcuno, combattere per una giusta causa. Sono target molto appetibili per coloro che stanno cercando di reclutare gente”.

Quindi a questo punto la scuola che cosa può fare?
“La prima cosa è cercare il più possibile di trattenere i ragazzi più vulnerabili a scuola. L’altro aspetto del problema si gioca all’interno: cosa offrire? Perché se questi ragazzi non trovano nella scuola un punto di riferimento, si sentono sempre più marginalizzati. È tutto parte di una medesima sfida”.

Ecco, appunto, cosa insegnare?
“Ci sono molte discussioni a riguardo. È desiderio comune dei genitori che i ragazzi possano ricevere informazioni esatte sulle altre religioni alla luce del fatto che in Europa le nostre società sono sempre più pluralistiche e siamo sempre più confrontati con la presenza di persone di altre fedi e culture. Se si guarda, per esempio, al sistema educativo in Francia, si vede che esso è fondato sulla neutralità partendo dal presupposto che la religione è un fatto totalmente privato. Questo approccio però non tiene conto del fatto che le persone sono differenti e queste differenze dipendono anche dall’appartenenza religiosa. Sono cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, ebrei, indù… o non hanno alcuna fede religiosa. Qui sta la sfida e l’Europa ha difficoltà a trattarla sebbene si tratti di una priorità”.

Quindi?
“Dobbiamo accettare il fatto che viviamo in una società plurale e dobbiamo insegnare ai ragazzi come comportarsi in una società in cui non ci si combatte gli uni contro gli altri, ma pur appartenendo a religioni e convinzioni diverse, si condividono valori comuni, si rispettano gli stessi diritti e doveri e insieme si contribuisce a costruire il bene comune”.

Cosa si sta facendo a livello di Unione europea?
“Il sistema educativo è una materia che viene gestita dagli Stati membri e l’Unione europea non ha competenze in merito in questo campo. In alcuni Paesi, come la Germania per esempio, il sistema educativo dipende addirittura dai länder. È quindi normale avere approcci differenti che dipendono anche dai rapporti che gli Stati hanno con le Chiese. Il rischio comunque è che se noi non abbiamo un buon sistema educativo a scuola, il percorso educativo rispetto all’insegnamento delle religioni tenderà sempre più a privatizzarsi e verrà offerto in luoghi dove poi è difficile porre un controllo effettivo. È sicuramente un problema emergente e non solo in Francia o nel Regno Unito. Quello che si può fare è condividere e scambiarsi tra gli Stati membri le ‘best practice’ realizzate in campo. E questo realmente si può fare. Occorre cioè incontrarsi e parlare su cosa possiamo fare per combattere la radicalizzazione, come educare alla tolleranza religiosa. Non possiamo avere programmi comuni, ma almeno possiamo avere una sorta di piattaforma di dialogo alla quale guardare per favorire la tolleranza, la comprensione reciproca, l’apertura per le altre religioni”.

Maria Chiara Biagioni

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