Ci stiamo dirigendo verso le elezioni del 4 marzo senza far attenzione al fatto che la maggior parte dei giovani italiani, e non solo, non saprà fino all’ultimo a chi elargire la propria preferenza. Forse il più grande rimedio sarà l’astensionismo o il voto acritico, nonostante i ripetuti appelli delle istituzioni e delle forze politiche in gioco.
La risposta al perché di questo fatto sta, da un lato, nell’assenza di fiducia nelle istituzioni, tipica dell’epoca nella quale viviamo, dall’altro, invece, nella lontananza della politica dalla vita reale della gente. Per quel che riguarda il rapporto con le istituzioni, viviamo in un tempo nel quale il soggettivismo imperante tende a sminuire qualsiasi tipo di realtà che abbia a che fare con i bisogni della collettività, inoculando l’idea che ciò che è di tutti in realtà non sia di nessuno e che la vita valga la pena di essere vissuta solo quando questa può beneficiare di sé stessa.
A ciò si aggiunga il fatto che l’istituzione è fatta da uomini e donne alimentati quotidianamente dal medesimo contesto culturale e il distacco può considerarsi quasi totale. L’altro problema al quale si assiste è quello della mancanza di contatto della politica con la vita reale della gente. In un mondo sempre più specializzato, nel quale ogni ambito del sapere utilizza un apparato categoriale proprio, relegato esclusivamente al proprio ambito di competenza, risulta sempre più difficile aprire le frontiere della comunicazione perché si abbia uno scambio proficuo tra i diversi universi culturali.
Lo stesso meccanismo si verifica anche quando, su canali diversi, sentiamo parlare il politico di turno con un linguaggio totalmente distante dal vissuto concreto della gente comune. Se, come diceva Wittegenstein “ogni esperienza umana è un’esperienza linguistica”, risulta chiaro come la consapevolezza linguistica della disciplina politica (se di disciplina possiamo parlare allo stato attuale) sia lontana dall’esperienza umana della gente comune, giovani in primis.
Lo sforzo da compiere è innanzitutto quello della credibilità. Non la credibilità di coloro che si credono perfetti e con spirito farisaico muovono dai tanti fallimenti della politica, ma quella di coloro che riescono a narrare su canali comunicativi nuovi la passione per un bene comune dal respiro ampio che realizza sé stesso nel qui, ora e per noi. Sembra di rivedere, a proposito di anelito al rinnovamento, in ambito diverso (forse non tanto, se ci riflettiamo bene) ciò che più di mezzo secolo fa avveniva per l’annuncio cristiano nella visione del Vaticano II: il bisogno del cambio della prospettiva teologica da una Chiesa dal linguaggio autoreferenziale ad una Comunità credente dall’identità storico-salvifica.
La Chiesa dunque, che per prima ha vissuto e vive ancora oggi il travaglio della riforma, può diventare segno e strumento efficace di accompagnamento per una politica che voglia riscoprire il vero senso del proprio esserci. Cosa voglia rappresentare quest’ultima affermazione è tutto da dire e, forse, al di là delle pretese di questo testo. Tuttavia ciò che risulta chiaro è che la Comunità dei credenti non può continuare a rimanere sorda di fronte all’urlo di una società bisognosa di un Cristo liberatore. Altrimenti resteranno i giovani, futuro della nostra umanità, a non sapere più dove andare, chiusi nell’acriticità di una società che non avrà saputo dar loro il nutrimento necessario per compiere il passo decisivo.
Francesco Pio Leonardi