Elezioni USA -1 / I democratici cambiano il leader in corsa, ma l’esito della consultazione resta un rebus

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L’anno elettorale statunitense – che era stato in pratica inaugurato a gennaio con i Caucuses dello Stato dell’IOWA – sta vivendo ormai le ultime settimane certamente decisive (e definitive, per la correzione di eventuali errori politici) prima dell’appuntamento generale per la scelta del nuovo Presidente, fissato com’è noto il 5 novembre prossimo.

La campagna che ha attraversato le “Primarie” sembrava in realtà aver già espresso, alla fine di giugno, tutto il suo potenziale retorico, politico, polemico ed anche propositivo.         I due più rappresentativi leaders dei rispettivi Partiti – quindi il presidente in carica per i Democratici, Joe Biden ed il suo contendente tra i Repubblicani ed ex presidente, Donald Trump sembravano ormai i due competitori ufficiali per l’elezione generale di novembre.

Avevano infatti entrambi raccolto il massimo sostegno possibile dagli elettori delle “Primarie” e delle altre assemblee dei due Partiti. Alla fine di giugno, tutto sembrava dirigersi verso quell’esito ritenuto ormai più che probabile, anzi sicuro. Sarebbero stati ancora una volta Trump e Biden a sfidarsi a novembre, ma questa volta a posizioni invertite, rispetto al 2020.

Elezioni USA / Colpi di scena e mutamenti di strategia come nella campagna del ‘68

In effetti, la svolta che ha condotto alla sostituzione di uno dei due attori in competizione, sembra si possa far risalire al primo (ed unico) dibattito elettorale che è stato celebrato il 28 giugno 2024 tra i due sfidanti Biden e Trump. Esso è stato messo in scena con i due candidati in apparenza rilassati e senza preoccupazioni di elezioni “Primarie” vicine, ormai esaurite e quindi alle loro spalle. L’esito del dibattito televisivo tra i due antagonisti per la Casa Bianca ha chiaramente messo in risalto un presidente uscente apparso incerto, insicuro ed impacciato di fronte a Trump.

Donald Trump
Donald Trump

Lo sfidante, a sua volta, invece ha dato prova di essere piuttosto convinto delle sue idee e deciso. Al punto tale da esporsi portando avanti con grande determinazione un così delicato impegno: la pace in Ucraina.  Addirittura, facendosene carico, qualora eletto, fin dall’interregno, e ciò ben prima dell’ingresso ufficiale in carica del 20 gennaio 2025. Questa chiara aspirazione dell’ex presidente Trump coincide perfettamente con quella del corpo elettorale statunitense.

Questo impegno tanto importante – il dover riportare la pace in Ucraina – costituisce infatti una fondamentale aspettativa del popolo Americano che Donald Trump ha saputo cogliere e mettere in evidenza nel corso del dibattito. L’elettorato desidera e chiede un cambiamento sostanziale di linea politica. Ed è ovvio che non può aspettarsi il mutamento dalla medesima Amministrazione che è stata autrice di quegli errori. Questo è indubbiamente il dato di fatto che avvicina questa elezione a quella del ’68.

Elezioni USA / l’atmosfera pesante del ’68

Anche allora c’era una pesante – molto più pesante di quella odierna – condizione che gravava sulle spalle degli Americani. E che richiedeva un cambiamento, ancora più urgente ed immediato di quello odierno, del Vertice del Paese. Allora, nel ’68, c’era un profondo e radicale conflitto tra le Istituzioni ed il Paese reale. Cioè la Società civile nel suo insieme. Nel ’68, al culmine della guerra in Vietnam ed all’apice dell’escalation, l’Esecutivo veniva duramente contestato. Al suo interno, perfino il ministro della Difesa, McNamara aveva rassegnato le dimissioni, ritirandosi dalla politica.

All’esterno, infuriava dappertutto la rivolta contro la guerra. Non solo dei poveri e dei neri che denunciavano la sottrazione delle risorse del Welfare a causa del finanziamento della guerra. A cingere sotto assedio la Casa Bianca, c’erano anche le madri di famiglia, gli studenti ed i professori universitari. Tutti uniti contro il conflitto vietnamita.

L’Amministrazione aveva già toccato quindi il minimo storico dei consensi (cioè tra il 30-35 % dell’approvazione). Quindi, il ritiro di quell’Esecutivo era ormai ritenuto un atto dovuto ed ineludibile. Non disponeva di alcun sostegno popolare, anche se la dichiarazione formale del ritiro vero e proprio dalla competizione elettorale volle aspettare l’esito della Primaria del New Hampshire (12 marzo 1968).

Joe Biden
Joe Biden

Elezioni USA / il ritiro di Biden

Invece, il ritiro di Biden dalla corsa elettorale non è stato determinato da un mancato sostegno del popolo come nel ’68, ma dalle insicurezze di alcuni Padri nobili del Partito. Sostanzialmente, si è trattato di un intervento di Nancy Pelosi da un lato, e della famiglia Obama dall’altro. Costoro, infatti, riferendosi ai risultati dei sondaggi che sia prima che dopo il dibattito elettorale con Trump, denunciavano un ritardo di Joe Biden rispetto all’ex Presidente nel gradimento dell’opinione pubblica, decidevano di convincere il presidente in carica a ritirarsi. Biden ha fatto il passo indietro, come gli è stato chiesto.

Rimane il fatto che il suo successore – il vicepresidente Kamala Harris – è risultato investito direttamente dalla Convenzione, senza che avesse in precedenza di fatto partecipato ad alcuna Primaria. Una condizione che avvicina di molto il candidato per i democratici a quella del ’68. Anche allora, infatti, il vicepresidente Hubert Horatio Humphrey venne investito direttamente dalla Convenzione di Chicago, senza avere al suo attivo alcuna Primaria vinta in precedenza. Una condizione di competitore quindi, in partenza, non autorevole in quanto non suffragata dal corpo elettorale.

Elezioni USA / a causa delle guerre due situazioni affini

In conclusione, se dunque l’effetto conflitto in Ucraina non è una causa così dirompente – come lo fu nel ’68 il conflitto vietnamita – per l’invocazione immediata del mutamento del leader – tuttavia la guerra alimentata in Ucraina anche e soprattutto con le armi americane, e la stessa condizione ingessata dell’Amministrazione Biden che ha ripetutamente rinunciato ad intraprendere le vie negoziali per giungere ad una soluzione del conflitto – proprio come fece Johnson nel 64/68 –  avvicinano la condizione attuale della Nazione a quella di quel periodo.
Ecco quindi che il colpo di scena del mutamento del Leader – col subentro della Harris a Biden – non può garantire la certezza del superamento, per i Democratici, della prova elettorale di novembre.

Elezioni USA / Kamala Harris non rappresenta il cambiamento auspicato dagli elettori

Mettendo in lizza la Harris al posto di Joe Biden, i Democratici non possono però tuttavia immaginare di avere risolto tutti i loro problemi interni. E, men che meno, quelli del Paese. La Nazione si dibatte tra problemi seri. L’inflazione su base annua è cresciuta del 2.5% nel mese di agosto ed è sempre un tema che vivacizza i contenuti della campagna elettorale. La Harris si è limitata, almeno fino ad ora, a proporre soluzioni generiche per le questioni economiche e quindi poco convincenti.

Per la guerra in Ucraina, l’impegno è naturalmente quello di alimentare il conflitto, invece di cercare altre soluzioni condivise. La NATO forte non è altro che un anacronismo ed un residuo dell’era del “domino territoriale” di Eisenhower e Foster Dulles degli anni ’50 del secolo scorso. Quel concetto tramontò del tutto con l’arrivo del presidente John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca. Il Presidente della “Nuova Frontiera” sostituì la dottrina del “domino territoriale” con la più mite, accessibile ed equilibrata dottrina del “domino psicologico”.

E proprio quella è stata accolta da Donald Trump nel corso del suo primo mandato di governo al vertice della Nazione. Ora constatiamo che i Democratici di oggi sono tanto anacronistici da preferire Eisenhower al posto del loro illustre ed eroico predecessore. E sono dunque i Repubblicani – e non i Democratici – a sostenere la necessità di una “Nuova Frontiera” oggi. Ne prendiamo atto. Ma il corpo elettorale esige risposte chiare e non impegni generici. Chi ha voluto la bicicletta, deve dimostrare di saper pedalare.

Elezioni USA Kamala Harris
Kamala Harris

Elezioni USA / l’imbarazzo di Kamala Harris

L’imbarazzo di Kamala Harris è evidente e si mostra in modo pure altrettanto chiaro in due modi. Nella genericità delle soluzioni prospettate agli Americani nel discorso di accettazione della candidatura del Partito Democratico. E anche nella spigolosità, singolarità ed arbitrarietà degli attacchi politici, indirizzati al suo avversario, cioè all’ex presidente Donald Trump.
In effetti, come può essere ragionevole immaginare di vincere le elezioni generali del 5 novembre con un programma economico tanto debole, e con un attacco imbarazzante e fuori misura all’avversario politico? Come può immaginare Kamala Harris che possa avvenire un fatto del genere? Come può immaginare una sua elezione a Presidente, mentre l’imbarazzo di aver ricoperto un ruolo in quella Amministrazione – accanto a Joe Biden – le impedisce di criticare a fondo quella contestata linea politica, dimostrando anzi perfino l’incapacità di proporre soluzioni migliorative per il contribuente statunitense?

Il conflitto d’interessi impedisce agli uomini rappresentativi dell’Amministrazione uscente di contestare a fondo quella linea politica, precedentemente abbracciata e portata avanti. Quello fu il problema del vicepresidente Humphrey, nel 1968 e quella stessa questione è riproposta oggi. Gli uomini dell’Amministrazione uscente di fronte agli elettori non possono che denunciare imbarazzo, impaccio, e scarsa credibilità. Cercano di rifugiarsi negli attacchi oltre misura verso l’avversario politico: ma quello non fa che indebolire la loro posizione di fronte all’elettorato.Elezioni USA, duello Trump Harris

Elezioni USA / all’elettorato non basta una leader più giovane

E’ difficile che l’elettorato si possa accontentare soltanto di un mutamento di leadership con persona più giovane (Kamala Harris ha 59 anni contro gli 81 di Joe Biden) senza ricorrere ad un vero e proprio mutamento di politica, interna ed estera, dell’Amministrazione in carica.
Sul tappeto, ad alimentare l’insoddisfazione, non c’è soltanto il conflitto Russo-Ucraino. C’è anche il conflitto in Medio – Oriente, tra Hamas ed Israele a dominare in prima pagina, i mezzi d’informazione. Esso provoca inenarrabili sofferenze alle popolazioni civili in uno scenario spietato ed orrendo che suscita ovunque esecrazione generale e condanna per il governo di Netanyahu e per i terribili eccessi a cui si abbandonano le forze armate di Tel Aviv.

L’Amministrazione Biden é apparsa come ingessata, incapace di esercitare tutte quelle forti pressioni che da sole avrebbero scoraggiato una estensione cosi smisurata delle operazioni belliche. Che coinvolgono sempre i civili palestinesi. La vendita delle armi al governo israeliano in tutto questo tempo è stata sempre assicurata dall’ amministrazione Democratica. Pertanto le parole di tregua e negoziati, anche per quest’ultimo conflitto sono risuonate come parole vuote, cioè senza fondamento e senza speranza.
In contraddizione ed in conflitto col rifornimento delle armi che è stato comunque sempre assicurato dagli Stati Uniti ad Israele. La contestazione – ed il conseguente mancato sostegno – all’Amministrazione uscente della componente di origine araba della popolazione statunitense non è dunque priva di fondamento, dal punto di vista morale e politico.

Conclusioni

L’elezione del nuovo Presidente americano appare fin da oggi, e naturalmente anche nel corso del prossimo mese, piuttosto combattuta ed incerta. Ma il giudizio del numero delle persone ancora incerte sull’espressione del loro voto potrebbe alla fine orientare l’esito delle elezioni in modo favorevole a Trump. Fatte salve naturalmente iniziative dell’ultima ora (o dell’ultimo momento) – per esempio la tregua in Palestina od in Ucraina – che il “privilegio dell’Esecutivo” in carica potrebbe tirare fuori cambiando a suo favore l’esito del voto.

Sebastiano Catalano
Giovanna Fortunato

 

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