Emergenza coronavirus / A Torino tra rabbia e vergogna: quell’umanità dolente costretta a impegnare un pezzo di vita

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Foto Andrea Parisotto

A Torino la via del banco dei pegni è stretta e lunga. Il palazzo è alto e s’affaccia su quello di fronte, e reciprocamente si fanno ombra.
Il sole, in questa parte della città, arriva un po’ di sbieco: strade piccole, case antiche e imponenti, qualche chiesa, spesso l’acciottolato al posto dell’asfalto, androni bui che sbucano in cortili nascosti.
Sentori di umido, ciuffi d’erba che, di questi tempi, spuntano più forti di tra le fessure lasciate nelle vie. Il vero centro storico di Torino, non solo quello dei re che hanno fatto l’Italia, è anche qui. Ed è anche qui che, fin dal mattino presto, da qualche tempo si raccoglie l’umanità dolente della città.

Foto Andrea Parisotto

Tutti in fila per dare in pegno quello che si ha, e così poter tirare avanti. In tempi normali erano poche le persone che si ritrovavano qui, magari assediate da qualche strozzino. Adesso, in tempi di pandemia virale, le donne e gli uomini che s’accalcano sono diventati tanti, troppi. Tanto che all’angolo della via c’è la polizia. Perché nelle scorse mattine qualche bisticcio c’è stato, qualche parola di troppo, tensione sopra le righe tra chi è arrivato, prima o dopo, a mettersi in fila per consegnare in pegno un pezzo di vita. Uno dietro l’altro – donne, uomini, pochi giovani – dalle prime ore del mattino, a volte anche in cento. Sotto la pioggia, in alcuni casi.
Occorre avere molto rispetto per queste persone. E cercare di comprendere bene cosa sta accadendo.
Qui, in via Giovanni Botero 9 a Torino (questo il nome della via dov’è l’entrata del banco dei pegni), si tocca con mano un fatto: Covid-19 colpisce tutti, ma di più chi è già stato colpito dalla vita e chi la vita l’ha dovuta percorrere sempre in salita. Non c’è distinzione di censo e non conta il colore della pelle. E, adesso, nemmeno poi tanto l’istruzione. Ciò che si coglie sono gli occhi bassi, la pazienza di alcuni, il nervosismo di altri, la voglia di fare in fretta di altri ancora. Qualche voce, molti silenzi.
Su tutto, la dignità di chi stringe i denti per affrontare qualcosa alla quale nessuno fino a poche settimane fa avrebbe pensato. E anche la rabbia che ogni tanto affiora. Lo sguardo di alcuni verso altri, uno spintone per non perdere il posto, lo sfogo verso gli addetti alla sicurezza che fanno come possono.
In coda per entrare (perché anche il banco dei pegni rispetta le regole di distanziamento sociale), c’è una vecchina siciliana arrivata a Torino poco più che ventenne, probabilmente sull’onda del grande esodo che negli anni ‘50 e ’60 la Fiat ha provocato, e adesso vedova da poco e talmente senza soldi da non poter nemmeno fare il funerale al marito. E c’è anche chi il lavoro lo ha ancora, ma magari è finito in cassa integrazione e non ce la fa proprio più; oppure chi, immigrato dal Sudamerica vent’anni fa, è a casa, contagiato dal virus preso in una residenza per anziani. C’è l’infermiera che ha smontato dal turno in ospedale.
Qui, vergona e dignità si fondono in un tutt’uno. Ci sono mogli e madri arrivate di soppiatto, senza fare rumore, di nascosto da mariti e figli: “Perché siamo senza soldi ma mangiare dobbiamo”. E non solo. Ci sono anche le bollette e gli affitti da pagare. E le attività da riprendere. È così, che in coda, puoi trovare anche piccoli professionisti e commercianti.
E si porta davvero l’oro di famiglia qui in via Botero numero 9. L’oro fatto di collanine e di anelli, braccialetti e pendagli, ricordi che rischiano di passare di mano, per sempre, se i proprietari non riusciranno a riscattarli.
Molti però vengono per rinnovare il pegno: si può fare e chi può tenta anche questa strada. Anzi, tra gli osservatori attenti della situazione, c’è già chi si chiede quanto davvero le code siano provocate da nuove richieste e quanto dal rinnovo di pegni precedenti. E quanta nuova povertà abbia effettivamente generato Covid-19.
Accade comunque anche questo nella Torino di oggi, che pure si mostra capace di essere più solidale del solito. Oltre all’azione sotto traccia di parrocchie e centri d’accoglienza e alla creazione da parte della diocesi di un Fondo di solidarietà per fare fronte all’emergenza, a dimostrarlo ci sono anche le statistiche.
In pochi giorni, per esempio, Torino Solidale (la rete di associazioni che insieme ai Servizi sociali della città raccoglie beni di prima necessità, con la collaborazione del Banco alimentare del Piemonte e il Banco delle opere di carità) è riuscita a consegnare 10mila pacchi spesa. Ma i numeri parlano chiaro: ad inizio aprile, in poche ore, sono state 16mila le domande per accedere ai buoni spesa comunali.

Andrea Zaghi

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