Nata un anno e mezzo fa sulla scia dell’appello di Papa Francesco nell’ottobre 2013 ad aprire conventi e istituti religiosi ai profughi, “Casa Scalabrini 634” è una esperienza innovativa, con 32 rifugiati, tra cui due famiglie, che vivono in semi-autonomia. Un modo per evitare che cadano di nuovo in situazione di precarietà. Il centro organizza anche iniziative formative per tutti (migranti e italiani), promuovendo la cultura dell’accoglienza a Casilino-Tor Pignattara, il quartiere romano con la più alta densità di immigrati. Da giugno 2015 ad oggi ha accolto 80 rifugiati, di cui 50 hanno completato con successo il percorso verso l’autonomia: hanno una casa e un lavoro e sono ben integrati nella società italiana.
“Casa Scalabrini 634” (dal numero del civico della via Casilina) era un ex seminario degli Scalabriniani. Un grazioso complesso di palazzine primo Novecento ristrutturate, con un ampio giardino e bei terrazzi. Dalla porticina che affaccia sull’antica consolare romana non si capisce cosa ci sia al di là del muro di cinta. Poi incontri Nabou con la figlia Sofia di 4 anni tutta treccine e ottimo italiano. Uzman, senegalese, che cucina un pollo con patate in cucina per la prima volta. E Sonam che dal Tibet ha trovato qui la libertà. “Siamo partiti un po’ in sordina. Era il periodo di Mafia Capitale e c’erano stati da poco gli scontri a Tor Sapienza. All’inizio abbiamo ricevuto mail di protesta, non volevano che aprissimo il centro. Ora molti ci conoscono: i nostri ragazzi sono bravi. Le signore offrono dolci, organizziamo feste per i bambini. Però ogni tanto ci sono piccole lamentele, ad esempio per l’immondizia. Alcuni ci tollerano”. Il direttore esecutivo Emanuele Selleri, alla guida del progetto insieme al direttore generale fratel Gioacchino Campese, racconta così gli inizi dell’innovativa esperienza di Casa Scalabrini 634, caso unico a Roma: 32 rifugiati, tra cui due famiglie, vivono in semi-autonomia. In contemporanea il centro organizza iniziative formative per tutti (migranti e italiani), promuovendo la cultura dell’accoglienza nel territorio. Da giugno 2015 ad oggi “Casa Scalabrini 634” ha accolto 80 rifugiati, di cui 50 hanno già completato il percorso verso l’autonomia: hanno una casa e un lavoro e sono ben integrati nella società italiana. Nata un anno e mezzo fa sulla scia dell’appello di Papa Francesco nell’ottobre 2013 ad aprire conventi e istituti religiosi ai profughi, “Casa Scalabrini 634” gode dell’esperienza centenaria della Congregazione Scalabriniana, al servizio dei migranti in 32 Paesi del mondo.
Un percorso verso l’autonomia. È stato realizzato un progetto focalizzato sui bisogni reali, nel quartiere romano di Casilino-Tor Pignattara, che ha la più alta densità di presenza di immigrati, tra cui molti musulmani. Poco lontano, a Tor Sapienza, nel novembre 2014 erano avvenuti infatti accesi scontri tra la popolazione e i migranti, presi di mira in un centro di prima accoglienza. “Casa Scalabrini 634” mira proprio
all’integrazione tra rifugiati, migranti e comunità locale.
Perché il problema maggiore, una volta usciti dai centri e ottenuto lo status di rifugiato (o altre forme di protezione internazionale), è che molti profughi rimangono abbandonati a se stessi, in strada o in alloggi precari, perché non trovano lavoro o perché nessuno affitta loro una casa o una stanza. Così rischiano di nascere situazioni di emarginazione o tensioni con la comunità che accoglie. Inoltre non è sempre facile uscire da una gestione assistenzialista della propria vita, visti i tempi lunghi per l’esame della domanda di asilo e relativa permanenza nei centri. In media 1/2 anni, ma c’è chi è rimasto anche 7 anni, per via dei ricorsi dopo il diniego.
L’importanza della seconda accoglienza. È in questa “zona grigia” trascurata da tutti, quella della seconda accoglienza, che si colloca il progetto, gestito dall’Ascs (Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo) e che non riceve fondi pubblici. “Ci autofinanziamento con progetti e donazioni private”, spiega Marianna Occhiuto, responsabile della comunicazione, dei social e del fund raising. Quattro operatori lavorano a tempo pieno, altri part time, c’è una rete di collaborazione con altre realtà associative del territorio e 40/50 volontari che danno vita a una serie inesauribile di iniziative che ruotano intorno a quattro pilastri: accoglienza, sensibilizzazione, formazione e cittadinanza attiva. Ci sono corsi di web radio, sartoria, laboratori per costruire aquiloni, di italiano, inglese, scuola guida (teoria), agricoltura sociale, incontri nelle scuole, uno sportello di orientamento al lavoro, iniziative di restituzione alla comunità.
“I nostri corsi sono aperti a tutti, il 20% sono italiani”,
precisa Selleri: “Il nostro è prima di tutto un servizio alla società italiana. È importante investire sulla seconda accoglienza. Invece oggi tutti i fondi pubblici vanno per la prima accoglienza, sarebbe buono equilibrare le risorse”. “Comprendiamo bene la paura del diverso – prosegue -. Gli anziani sono terrorizzati. Ogni volta che avvengono attentati terroristici tra i nostri ragazzi la tensione è altissima. Capiscono che le conseguenze ricadranno su di loro. Dopo aver costruito la fiducia bisogna ricominciare a dimostrare a tutti che sono persone normali”. Purtroppo, confida, “le rimostranze maggiori arrivano dai parrocchiani”.
Cucina, spazi comuni e stanze private. A parte i due nuclei familiari che hanno uno spazio autonomo, in ogni stanza vivono in due. Hanno a disposizione un frigorifero, poi gli spazi in comune: una grande cucina attrezzatissima, una biblioteca, l’aula computer, una piccola moschea, la cappella cattolica che ogni sabato si apre al territorio per la messa. Due volte al mese c’è una sorta di assemblea condominiale, per mettere in comune esigenze o problemi. Di giorno in casa non c’è nessuno, perché quasi tutti lavorano. “Arrivano da noi tramite lo Sprar o il Centro Astalli – spiega Selleri -. Di solito hanno già un lavoretto, poi costruiamo un progetto personalizzato per ciascuno”. Il progetto prevede infatti anche tirocini e borse lavoro, ad esempio nell’agricoltura sociale o presso grandi aziende. Poi nel tardo pomeriggio la casa si anima, con i corsi. Arrivano i volontari, i migranti che risiedono nel territorio, gli italiani. Il corso per diventare conduttori, autori o tecnici di web radio – c’è già un attrezzato studio di registrazione – è tra i più gettonati, con una ventina di partecipanti. Ma vanno molto anche quelli di sartoria (per principianti e livello avanzato) o le lezioni di teoria per prendere la patente. Poi ci sono le iniziative di restituzione al territorio, come le donazioni di frutta a persone bisognose o il progetto “Ri-diamo” che distribuisce abiti ricevuti in dono ai senza dimora che vivono alla stazione Tiburtina.
Dal Tibet e dal Senegal. Sonam, 32 anni, è un rifugiato politico tibetano. Dopo essere stato nei centri Sprar per due anni e mezzo ora lavora in una onlus. È qui da tre mesi. “Sono fuggito perché in Tibet non c’è democrazia – racconta -, a scuola non ci permettono di parlare la lingua tibetana, ci sono tanti problemi. Tanti monasteri vengono bruciati dai cinesi”. Ha pagato il lungo e non facile viaggio con pietre preziose, perché non aveva soldi: “Il momento più difficile è stato alla frontiera tibetana. Ci sono tanti check in a piedi in montagna, sul fiume”. Spera di rimanere in Italia perché “qui c’è la libertà”. Ama disegnare soggetti della cultura tibetana e forse quello è il suo sogno. “Qui è bello, è una famiglia internazionale, tante persone diverse, mangiamo e giochiamo insieme. Qui vengono tanti italiani, ci aiutano a studiare l’italiano, l’inglese. Mi sento ben accolto”. Nabu invece viene dal Senegal, è a “Casa Scalabrini 634” con marito e figlia di 4 anni. Il marito, dopo il riconoscimento dello status di rifugiato, è riuscito a fare il ricongiungimento familiare. “Sono felice qui, ho ricevuto tanto aiuto dagli italiani – dice -. Dal 2009 ho sempre vissuto nei centri Sprar. Lì non puoi cucinare, non si è autonomi. Qui invece è come stare a casa propria, si vive serenamente”. Il marito non dorme spesso nella casa perché lavora a Capena, lei vorrebbe trovare un impiego in una casa di riposo. “Il futuro non lo so, solo Dio lo sa, Insciallah. Per ora voglio crescere mia figlia e, se Dio lo vorrà, anche un altro bambino”.
Patrizia Caiffa