L’ambizione è trasformare un’intera regione del Kenya, il dubbio sono le conseguenze del cambiamento. Lo strumento, ufficialmente, è indicato da una sigla, Lapsset: sta per ‘Lamu Port and Southern Sudan-Ethiopia Transport Corridor’. Di fatto, si tratta di un’opera pubblica faraonica, di cui il terminal petrolifero che sarà costruito sulla costa di fronte, appunto, all’isola di Lamu, non lontano da Malindi, è solo una piccola parte: un oleodotto, città satellite per ospitare i lavoratori della struttura, autostrade e ferrovie per collegarla con il resto della regione. L’operazione, stima il governo, varrà, a lavori completati, il 3% del prodotto interno lordo kenyano. A fine febbraio, annunciando l’inizio della costruzione entro un mese, il presidente della repubblica Uhuru Kenyatta ha anche notato che il Lapsset, con il suo porto, potrà rappresentare un accesso privilegiato ai 230mila chilometri quadrati di acque territoriali: “un’enorme risorsa”, finora sfruttata solo marginalmente.
Impatto locale. Tra le grandi implicazioni dell’infrastruttura – anche politiche, perché romperebbe l’ isolamento quasi totale del Sud Sudan, finora costretto a servirsi del terminal di Port Sudan, controllato dal governo rivale di Khartoum – quelle più osservate sul territorio riguardano però l’impatto sulla vita delle popolazioni locali. Una questione che è stata sottolineata più volte da Shaika Abdalla, parlamentare per la contea di Lamu. Il progetto, ha ricordato durante un recente incontro pubblico, potrebbe portare la popolazione della zona – ad oggi 102mila persone – ad essere più che raddoppiata in appena due anni. Per assorbirne l’impatto, sostiene la parlamentare, il 30% dei redditi prodotti grazie all’impianto dovrebbe essere destinato alle popolazioni locali. Ma i problemi non finiscono con l’aspetto logistico: è l’intera vita delle comunità che, in un modo o nell’altro è destinata a cambiare. Le popolazioni di pastori della zona, ad esempio potrebbero trovare nell’oleodotto un ostacolo per i loro spostamenti stagionati. Questo nodo, è stato sostenuto durante un dibattito recente al centro studi Rift Valley Institute di Nairobi, andrebbe sciolto “prima che greggi e bulldozer finiscano per trovarsi faccia a faccia”, ma nulla ancora è stato fatto. È già esploso, invece, il problema delle terre su cui il nuovo terminal petrolifero e le altre infrastrutture avrebbero dovuto sorgere, e ha due facce. La prima è quella degli speculatori – una ventina, secondo le autorità – accusati di aver acquistato addirittura 2000 chilometri quadrati di terreni allo scopo di rivenderli, a prezzo maggiorato, al governo. Le misure prese da Kenyatta in materia sono state drastiche: il 70% dei titoli di proprietà nella contea di Lamu è stato revocato dopo la rivelazione della presunta tentata truffa.
Vigilanza indispensabile. Solo di recente si è invece risolta la seconda questione: quella delle compensazioni per chi possedeva legittimamente i terreni necessari alla ‘grande opera’. Il Tesoro ha stanziato in totale 1,31 miliardi di scellini kenyani (quasi 130 milioni di euro), di cui i due terzi sono stati distribuiti a febbraio, dopo che per mesi politici locali come Shaika Abdalla avevano sollevato il problema. Da qui parte padre Albert Bujis, vicario generale della diocesi di Malindi, mostrandosi ottimista sul progetto: “Le compensazioni sono state pagate, quindi non credo che la popolazione protesterà quando cominceranno i lavori; il problema piuttosto potrebbe essere quello della sicurezza, perché non siamo lontani dalla frontiera con la Somalia, ma sono state prese misure importanti, e credo che si andrà avanti”. La domanda forte tra gli abitanti è invece quella di ricevere benefici dal Lapsset, a cominciare dai posti di lavoro che saranno creati fin dall’apertura dei cantieri. Questa, prosegue p. Bujis, è una delle ragioni per cui la Chiesa locale “vuole essere coinvolta” nel progetto. “Attraverso la Caritas e la commissione Giustizia e pace – spiega – cercheremo di monitorare quel che verrà fatto e di darne notizia, di far sì che ognuno possa averne vantaggi”. La vigilanza appare indispensabile, se si pensa che Lamu – patrimonio dell’Umanità che finora si è retto sul turismo – ha perso da giugno 5,5 milioni di dollari in mancate entrate, visti i rischi legati alla sicurezza. Senza contare, denunciano le associazioni locali, i danni che, anche sul piano ambientale, potrebbero derivare dall’apertura dei cantieri.
Davide Maggiore