Fast fashion / La corsa al Black Friday e la moda che distrugge

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Mondo Fast fashion moda

Fast fashion non è l’ultimo trend del mondo della moda, bensì un fenomeno che va avanti da anni, ma che si è intensificato nell’ultimo decennio in cui la produzione d’abbigliamento viene relegata ai paesi più poveri. Così che i paesi più ricchi possano approfittarne, inondando i mercati di presunte offerte di acquisti sulla cui effettiva utilità ci sarebbe da discutere non poco.

Mondo / Fast fashion: la moda che distrugge

Anche se per alcuni potrebbe risultare sorprendente, la moda è il settore che coinvolge in assoluto più lavorati nel mondo. Basti pensare che un sesto delle persone impiegate in un lavoro rientrano nell’industria globale della moda. Non è difficile immaginare il perché. Basta guardare le pubblicità. Siamo costantemente sottoposti a stimoli visivi che ci inducono ad acquistare e la maggior parte delle volte si tratta di abiti da indossare. Con l’avvento dei social network, la necessità di adeguarsi a canoni più o meno condivisi o stereotipati è aumentata, così come sono aumentati i presunti modelli cui adattarsi. Quasi ogni mese le cosiddette mode cambiano e si evolvono, rendendo a loro dire obsoleto quello che andava “di moda” la settimana prima. 

Ma in fondo non ci si sente troppo in colpa per gettare e acquistare capi nuovi. Perché si trovano offerte, tutti i capi sono a basso costo e più o meno tutti possono permettersi di comprare a proprio piacimento e gettare via quando ci si stanca. Per fast fashion si intende proprio un insieme di strategie strutturate per rispondere commercialmente alle ultime tendenze della moda. In sintesi, un sistema di produzione costante, senza tregua. Il concetto base sta nella riduzione dei tempi di produzione e di consegna dal venditore al consumatore, così che sempre più capi possano essere venduti a costi di produzione bassissimi, con un rincaro tale da consentire all’azienda di arricchirsi e al consumatore di risparmiare. Ma di risparmiare effettivamente sulle spese riguardanti, spesso, la dignità dei lavoratori. 

Mondo / Fast fashion: la moda che distrugge, l’esempio del Bangladesh 

Venti anni fa la più proficua e quasi unica attività economica del Bangladesh era l’agricoltura, ma in questo lasso di tempo le cose sono cambiate. Il Bangladesh è un paese povero che stenta a crescere, per questo è uno de Paesi con il più elevato numero di fabbriche volte alla produzione di abbigliamento. Il settore tessile impiega e dà lavoro a quasi metà della popolazione, specialmente alle donne. Nonostante “grazie” alla crescita esponenziale del mondo della moda molta più gente abbia trovato un impiego, i lavori che vengono assegnati sono sottopagati e pericolosi. Le condizioni degli stabilimenti in cui gli uomini e le donne vengono impiegati sono ai margini della sopportazione, anche quando questi sono legali. in alcune fabbriche vengono impiegati ancora anche minori e bambini.

Fast fashion Dhaka Bangladesh

Oltre produrre sostanze tossiche, che vengono rilasciate nell’aria e nell’acqua, gli edifici stessi versano in condizioni di decadenza assoluta. “L’incidente” di cui Dhaka è stata protagonista ne è la prova. Il 24 Aprile del 2013 è crollato l’edificio chiamato Rana Plaza, portando via con sé 1134 vittime e il doppio di feriti. Chiamarlo incidente però non è del tutto corretto. I migliaia di lavoratori al suo interno avevano già fatto presente dei danni strutturali e la precarietà dell’edificio, ma sono stati tristemente ignorati. Investire in queste strutture per renderle abitabili significa “perdere” considerevolmente del denaro, intaccando il capitale delle industrie. Spesso e volentieri queste fabbriche non sono direttamente controllate dalla casa di moda, la casa madre, bensì da intermediari. Ogni fabbrica appartiene ad un proprietario che stringe accordi con svariate case di moda e aziende. Il rapporto quindi non è diretto e men che meno è il capitale equamente ben distribuito.

 Mondo / Fast fashion: la moda che distrugge

Purtroppo, nonostante siano estremamente frequenti, non sono solo i crolli a uccidere. Le sostante emanate dai prodotti per la fabbricazione dei capi d’abbigliamento contaminano aria e acqua, rendendo altissimo il tasso di tumori, malattie della pelle, insufficienze respiratorie e tutto ciò che ne consegue. Il problema ovviamente sta alla radice: la fabbricazione stessa del cotone prevede uso di pesticidi e fertilizzanti talmente tossici da uccidere un agricoltore su tre nella fascia tra i 40 e i 65 anni.

Tutto ciò avviene per un salario ridicolo. La media, in Bangladesh, è di 10$ al mese, circa 9,60€. Per cifre del genere la gente muore, si ammala, rischia tutto quello che ha. Chiedersi perché i salari non possano essere alzati è tanto inutile quanto scontato: se una t-shirt in cotone viene venduta a 5€, la casa di moda deve averne un suo ricavo e il produttore deve ridurre il costo della manodopera se vuole continuare a produrre. Se compriamo da questo mercato, in sintesi, ne sosteniamo la filiera mortifera.

Mondo / Fast fashion: la moda che distrugge

Tutto ciò accade davanti agli occhi dell’Occidente, che in silenzio approfitta di ogni “ultima offerta” del black friday per perpetrare gli acquisti spasmodici che finiranno nell’immondizia. D’altronde è molto più facile acquistare oggi grazie all’ecommerce, che ha reso ancora più alla portata di tutti acquistare dai grandi brand a prezzi bassi. Nonostante non siano i consumatori coloro che stabiliscono i salari e controllano le condizioni del lavoro, vi è sicuramente una partecipazione a questo fenomeno. Acquistando una maglia al costo di 3€ non ci si può aspettare che chi ha prodotto quella maglia viva in condizioni lavorative adeguate.  Quello che i consumatori possono fare è sicuramente cercare di ridurre l’acquisto di abbigliamento delle grandi catene, cercando di comprare responsabilmente.

Se è vero dunque che il nostro piccolo portafoglio esprime di fatto un voto nella scelta del mercato che vorremmo, non si può al contempo relegare tutta la responsabilità ai consumatori. Vi sono organizzazioni internazionali che dovrebbero rompere il silenzio e agire. E non è solo il capitale umano ciò che devono considerare. I lavoratori e le persone che abitano nelle aree interessate dal fenomeno non sono, purtroppo, l’unico problema. Come accennato, le falde acquifere vengono compromesse, il tessuto che indossiamo è fatto da cotone trattato con pesticidi i sostanze chimiche. Per questo, più associazioni e organizzazioni hanno richiesto l’intervento delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. Richieste che per il momento sono ancora però in attesa di riposta.

Vittoria Grasso