Festa del papà / Custodire i figli e trasmettere l’inquietudine della felicità

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Quando è nato il mio terzo figlio c’eravamo trasferiti da poco in un palazzo senza ascensore. Lasciare il passeggino nell’atrio è stata una scelta inevitabile. Così Adriano, a differenza di Francesco e Giulio, è stato cullato esclusivamente in braccio, senza l’agevolazione delle quattro ruote. I primi giorni sono stati solo molto dolci. Lo tenevo tutto in una mano e lui stava rannicchiato con la faccia sul mio petto. Dopo è stato più difficile, non per l’aumento di peso, ma per la sua scarsa propensione a dormire. Le notti passate con lui tra le braccia, pronto a piangere appena lo poggiavo nella culla, sono per me l’icona della bellezza e della fatica di essere padre. C’è lo spossessamento, il non essere più sicuri della propria notte come dei propri programmi. C’è la commozione per un essere umano di pochi chili, che vuole solo te, o la mamma, come letto. C’è la confusione tra la lode e l’imprecazione ad ogni risveglio forzato, mescolando la gioia, per quel miracolo toccato proprio a te, con la rabbia per una stanchezza che non trova riposo. Ora Adriano ha un anno e mezzo e sono almeno sei mesi che dorme bene, la rabbia è solo un ricordo, resta invece la tenerezza tra noi che sarebbe stata diversa, forse meno intima, senza tutte quelle notti passate insieme.
Essere padre oggi non è un ruolo garantito dal contesto sociale, è una relazione che costruisci giorno dopo giorno. Un papà che, ideologicamente, si sottrae al cambio del pannolino, a un turno di notte, alla preparazione di una pappa, è un papà che perde e fa mancare qualcosa. I miei figli sono bambini, ma credo che ogni momento vissuto insieme, oltre a un valore in sé, avrà un peso anche nel rapporto futuro.
Oggi maternità e paternità si somigliano molto più che in passato, a distinguerle non sono le funzioni, sempre più intercambiabili nell’economia familiare. Se però dovessi spiegare con un solo termine lo specifico, ma non esclusivo, della paternità sceglierei la parola custodia. Come papà sento molto questo compito, che ha radici primordiali che hanno a che fare con la stessa forza fisica del maschio e che oggi vanno declinate nella ricerca di una solidità priva di ogni violenza. Ma custodia vuol dire anche molto altro. Vuol dire aiutare a crescere una persona fino al giorno in cui non avrà più bisogno di te. Non si educa se non con la testimonianza, questo un genitore lo capisce subito. E allora come papà sento che devo custodire anche me stesso: che lo voglia o meno, mostro a Francesco, Giulio e Adriano un modo di essere uomo.
Io vorrei che i miei figli potessero vedere nel loro padre una brava persona. E che quello di essere brave persone possa diventare un loro desiderio.
Vorrei anche che i miei figli vivessero felici. E questo dipende, almeno per una piccola parte, anche dal mio modo di cercare la felicità. Vorrei trasmettergli l’inquietudine della felicità, quella inquietudine che Ignazio chiamava santa, fatta di un cuore e una testa che sono sereni eppure non si accontentano e per questo sono sempre aperti agli altri, alla vita, ai sogni. Un’inquietudine che non somiglia all’ansia dell’avere, dell’apparire e del prevalere.
Essere padre è difficile, ti fa sentire più vulnerabile, allarga il perimetro di ciò che può farti male: la ferita sul corpo di tuo figlio è una ferita sul tuo stesso corpo. Però mi sento anche più forte, forse perché da quando sono papà mi sono riscoperto figlio amato. Mi sembra, finalmente, di aver capito lo sguardo di Dio su di me. Uno sguardo di padre, innamorato e tenero, nonostante la mia piccolezza. Come quello che di solito ho verso i miei bambini. È lo sguardo di mio padre che da quando è diventato nonno si sente patriarca.

Gennaro Ferrara

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