È proprio questo il modo migliore per legiferare? È questo il compito che abbiamo delegato ai nostri rappresentanti in parlamento? O forse dobbiamo abituarci all’idea che i bisogni umani vengono dopo le urgenze politiche?
L’Aula del Senato ha definitivamente approvato il ddl 2801, col titolo “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (Dat). Alcune parti politiche e sociali
plaudono a quest’approvazione, considerandola un nuovo passo avanti nella crescita del nostro Paese in materia di diritti civili. Altri invece – e noi fra questi – considerano l’approvazione di questa legge, nella sua versione definitiva, “un’occasione mancata” sotto diversi aspetti. Anzitutto per l’esercizio comune del buon senso, che, se fatto prevalere, avrebbe consentito, con l’applicazione di pochi e puntuali correttivi al testo del dispositivo, di affrancare la normazione di una materia così delicata e complessa dal riduttivo e sterile furore delle ideologie. Così non è stato, purtroppo.
Poi, è un’occasione persa per la classe politica – o almeno una parte di essa – che, in questa occasione, anziché focalizzare l’attenzione sui reali bisogni delle persone gravate dalla malattia e dalla sofferenza, probabilmente, si è lasciata irretire dalle logiche avvilenti della spicciola convenienza elettorale, dando l’impressione di essere ben disponibile ad asservire la propria coscienza ai miopi interessi ed “ordini” di partito.
Una terza ragione per restare con l’amaro in bocca è la sensazione, oggi prevalente, che le energie politiche e i tempi richiesti per portare a casa questa legge hanno con ogni probabilità “prosciugato” la possibilità, almeno in questa legislatura, di potersi dedicare all’approvazione di altre normative ben più utili ed urgenti, a supporto delle persone malate e di chi se ne prende cura quotidianamente (es. legge di sostegno economico per chi assiste a casa propri cari malati).
Di questo testo di legge sulle Dat si sono offerte, nei mesi passati, ampie ed approfondite analisi, per cui riteniamo inutile oggi tentare di aggiungere qualcosa di nuovo rispetto a quanto già evidenziato in precedenza. Solo ci rimane il mesto compito di sottolineare ancora una volta le principali prospettive problematiche di questa norma, che nella sua formulazione definitiva, risulterà a nostro avviso poco utile a malati e medici, pericolosa per l’apertura di fatto a possibili interpretazioni eutanasiche, foriera di contenziosi giuridici ed assicurativi per l’ambiguità di alcune sue prescrizioni.
Senza dunque attardarsi a ripercorrere nel dettaglio gli otto articoli che la compongono, anzitutto ribadiamo che l’impianto globale di questa legge, contrariamente a quanto affermato nel suo preambolo, finisce per minare alla base la relazione paziente-medico che, da alleanza per la vita e la salute, rischia di cambiarsi in un costante “redde rationem” (“rendi conto”) reciproco, avvelenato da sospetti e meccanismi di difesa. Il paziente preoccupato di far valere il proprio diritto all’autodeterminazione assoluta e il medico ridotto quasi ad esecutore “testamentario”, obbligato per legge (ma… al riparo da responsabilità civili o penali!) a derogare, ove richiesto, alla propria coscienza umana e professionale. Altro che medicina “in scienza e coscienza”!
L’altro grande vulnus globale di questa norma riguarda la sua mancanza di vincolo (e persino di solo riferimento) alla effettiva condizione clinica attuale del paziente, così che la formazione ed espressione delle sue volontà di cura risultano di fatto indipendenti dal tempo (“ora per dopo”), dalla corretta informazione, dalle condizioni psicologiche del dichiarante, dalla gravità della malattia e dal grado di proporzionalità clinica delle cure offerte.
Tutto ciò condito da una buona dose di sofismi, per cui sembra siano le mere parole a costituire la realtà. La prova? È bastato nel testo di legge definire nutrizione e idratazione artificiali come “trattamenti sanitari” per renderle automaticamente interrompibili e rifiutabili, ancora una volta senza esigere che una loro valutazione sia compiuta nella concretezza del caso clinico in cui vengono impiegate. Insomma, un gran pastrocchio che, con la sua applicazione, presumibilmente finirà per scontentare molti, forse la maggior parte!
È proprio questo il modo migliore per legiferare? È questo il compito che abbiamo delegato ai nostri rappresentanti in parlamento? O forse dobbiamo abituarci all’idea che i bisogni umani vengono dopo le urgenze politiche?
Maurizio Calipari