Le emozionanti immagini del Ponte Morandi di Genova, ricostruito in meno di due anni dopo il tragico crollo (14 agosto 2018), diventano una positiva lezione di speranza e di ripresa della bella Italia, un traguardo simbolico ed un costante monito per una sempre diligente manutenzione degli edifici e delle strutture del servizio pubblico.
L’opera, progettata dall’architetto e senatore Renzo Piano, lunga 1.067 metri, con 17.500 tonnellate di acciaio, è stata portata a compimento con l’elevazione e il varo della diciannovesima campata in ancor meno di 20 mesi e a luglio sarà resa percorribile.
L’intreccio tra il ferro e il vento, il senso del silenzio e della memoria delle 43 vittime del tragico crollo, la linearità della “prua della nave”, che la notte diventa sorgente luminosa, sono tutte suggestioni che Renzo Piano ha trasmesso nella sua intervista, spiegando il significato dell’opera. “Costruire ponti è meglio che costruire muri, si mette in atto un’azione di dialogo, d’incontro, di collegamento”, di cui oggi abbiamo tanto bisogno.
La chiusura e il distanziamento sociale che la pandemia per il COVID-19 ha provocato, trova nella visione del ponte un simbolo e un emblema di speranza.
L’evento, salutato come un “miracolo” per la brevità di tempo, nel rispetto delle norme di sicurezza e di efficienza, dimostra che “tanto si può fare. Basta volerlo”.
L’elefantiaca prassi burocratica delle procedure ha avuto un canale privilegiato di agevolazioni e di passaggi senza rallentamenti, superando anche il blocco della pandemia, che ha fermato le opere pubbliche e le attività ordinarie dell’intera Nazione, ma non l’impresa “PerGenova” formata da Fincantieri Infrastructure e Salini Impregilo, che ha operato per il ponte Morandi.
Il “modello Genova” costituisce un prototipo di sburocratizzazione delle procedure per gli appalti e un esempio di efficienza della pubblica amministrazione, nonché una prova documentale che le cose “se si vogliono fare, si possono fare”.
Apriamo gli occhi al futuro, alla ripresa, alla rinascita, all’innovazione, utilizzando i nuovi modelli organizzativi, anche nella scuola che non può continuare a riproporre i calchi di un passato ormai desueto e lontano dalla realtà tecnologica ed evoluta di oggi.
La ricostruzione del ponte diventa metafora del processo educativo e formativo che la scuola svolge, da paragonare ad una “grande opera” che vede in azione docenti educatori, progettisti, operatori, tecnici, amministrativi, com’è avvenuto per il nuovo ponte di Genova
Quando un alunno “cresce”, ci si sente fieri dei positivi traguardi e delle innovazioni tecnologiche che aiutano la scuola italiana a percorrere il sentiero della qualità.
Quando, invece, un ragazzo si perde – “la scuola, purtroppo, conta gli alunni che perde”, diceva Don Milani, – è come se cadesse un pilone, una campata del ponte, e, dopo la caduta, si raccolgono soltanto le macerie.
Che cosa fa la scuola? In certi casi un ragazzo che non frequenta viene considerato un peso in meno, una naturale selezione, trovando anche la giustificazione di un vantaggio per potersi dedicare meglio agli altri che rendono……
La coltre dell’ovvietà rischia, allora, di prevalere ed il qualunquismo tende ad avere il sopravvento.
Eppure la scuola pensata “di tutti”, unica, obbligatoria” a volte non riesce ad essere, come dovrebbe, “scuola per ciascuno”.
“Che io non perda nessuno di quelli che mi sono stati affidati” non è soltanto un auspicio, ma è un dovere professionale, di chi crede in quello che fa e con atto intenzionale educa, istruisce, forma, guida, stimola, accompagna e si prende cura degli alunni affidati.
Come per i ponti il cedimento di un solo elemento strutturale mette in pericolo tutta l’opera, così dovrebbe essere per la scuola e la perdita di un solo alunno dovrebbe mettere in crisi la Comunità scolastica che progetta piani di miglioramento e piani triennali di offerta formativa.
La medesima sollecitazione alla “manutenzione” ordinaria e straordinaria che si richiede per i ponti e le infrastrutture, dovrebbe essere rivolta anche all’edilizia scolastica, essendo ancora tanti edifici insicuri e inadeguati e, ancor più, all’impresa di “costruzione” della Persona, di cui la scuola è spazio privilegiato dove i docenti sono artefici, architetti, ingegneri, professionisti e validi “costruttori” di futuri cittadini e, quindi, della società del domani.
La metafora del ponte mette in evidenza la differenza tra il crollo di un ponte, dove è immediato e visibile il danno provocato, e una cattiva educazione, un mancato servizio, una scarsa cura e limitata professionalità nell’arte di insegnare che provoca l’allontanamento di un ragazzo dalla scuola, mortifica il suo entusiasmo, gli fa “odiare” alcune materie per tutta la vita.
Certi vuoti rimangono incolmabili e tante carenze sono irrecuperabili. I danni provocati da una mancanza di stile educativo, di attenzioni e di accoglienza durano negli anni e lasciano delle profonde cicatrici.
Come avviene per i ponti che dopo cinquant’anni invecchiano, il calcestruzzo si deteriora e devono essere abbattuti e ricostruiti, utilizzando l’acciaio, è indispensabile che ciò avvenga per la scuola con un ricambio adeguato e una qualificata classe docente, che mette in pratica innovazioni strutturali e organizzative per rendere efficace ed efficiente l’azione educativa.
Una nuova sfida attende anche gli operatori della Scuola della “Nuova Era” segnata dal Coronavirus, che ci vede ancora brancolare nel buio dell’incertezza per la paura di sbagliare.
Un nuovo progetto di scuola rinnovata aprirà orizzonti di speranza e di futuro.
Giuseppe Adernò