«Quante storie/ son passate di lì./ Mamme abbracciate a bambini/ uomini giovani/ già vecchi cadenti sono finiti/ in un fumo tremendo./ Chi conosce/ la mappa dei lager?/ Terra di Germania./ Suolo tedesco/ impregnato di cenere bianca,/ di ossa spezzate./ Saranno anche/ belli i giardini/ da quella terra spunteranno dei fiori./ Il mondo diviso:/ chi vuole testimonianza/ chi desidera/ silenzio assoluto./ Mi arrivano spesso/ questionari, inviti./ Aborriamo la rabbia/ ma forse è giusto/ che chi ha vissuto/ quel tempo porti il suo/ granello di sabbia».
Maria Musso, l’autrice di questa dolorosa poesia, nacque nel 1924 a Diano Arentino, e deportata nel campo di concentramento di Ravensbrück il 2 settembre del 1944. Riuscì a tornare a casa, a raccontare e scrivere l’orrore che aveva vissuto, il suo granello di sabbia, a spiegare ai giovani quanto di nefasto il nazismo avesse perpetrato. Maria è mancata nel 2011.
Il campo, lager di Ravensbrück, letteralmente “il Ponte dei corvi”, situato a circa 80 km a nord di Berlino in un villaggio prussiano, era costruito in una proprietà personale del “Reichsführer delle SS” Heinrich Himmler. Il campo era un terreno formato da una duna sabbiosa e desolata.
Il lager, circondato da un bosco e da un alto muro, era costituito da 32 baracche per le deportate, case per le SS, uffici per l’amministrazione e per il lavoro da schiave delle internate presso la fabbrica della ditta Siemens di Berlino.
Ravensbruck, lager per donne non conformi e inutili
Il 25 novembre 1938, Heinrich Himmler diede ordine di trasferire lì dei prigionieri dal campo di concentramento di Sachsenhausen per la costruzione del nuovo lager, poi aperto il 15 maggio 1939.
Il primo contingente di deportate fu di circa 867 donne austriache e tedesche, provenienti da altri campi di concentramento. Il Reich progettò il lager di Ravensbruck, a differenza di Auschwitz e di altri campi di sterminio, simboli dei crimini contro gli ebrei, per eliminare le donne “non conformi” che avrebbero potuto contaminare la “razza ariana” e le donne giudicate “inutili”.
Ogni donna era classificata con un triangolo di colore diverso, fatta eccezione per 10 lesbiche. Queste ultime non erano “meritevoli” di una identificazione, considerate insignificanti in quanto donne. Così, con l’aggravante dell’omosessualità, era ammessa sui loro corpi ogni tipo di brutalità.
Si considerò, il campo di Ravensbruck, “capitale” delle atrocità commesse dal nazismo nei confronti delle donne. Esse rappresentarono più della metà delle vittime dell’Olocausto. Tra loro, molte erano affette da disabilità. Dato che non si hanno notizie di donne con disabilità tornate dai lager, è facile immaginare che nessuna sia sopravvissuta a Ravensbrück. Considerando anche le condizioni fisiche ciascuna al momento dell’internamento, sommate poi a quanto vissuto.
A Ravensbruck nacquero 870 bambini e solo pochi sopravvissero
Del resto anche le donne sopravvissute hanno dovuto affrontare il resto della loro vita in salute precaria e, in molti casi, gravemente compromessa. Col peso di un’esperienza terrificante da sopportare e la consapevolezza di non essere capite.
A Ravensbrück nacquero 870 bambini, ma solo pochissimi resistettero al clima rigido e alla denutrizione. Molte donne furono sottoposte a sterilizzazioni forzate e la maggior parte di quelle che entrarono incinte costrette ad abortire. Alcune poterono portare a termine la gravidanza e e poi costrette a vedere il proprio bambino calpestato sotto i piedi delle SS. Altri bambini, entrati nel lager con le loro madri, non sono sopravvissuti agli stenti, alla denutrizione e al clima.
Dal maggio del 1939 all’ingresso dell’Armata Rossa, che liberò il campo il 30 aprile 1945, furono internarono nel campo di concentramento circa 132.000 donne, provenienti da tutta Europa. Erano disabili, oppositrici politiche, lesbiche, mendicanti, Rom, testimoni di Geova, prostitute ed ebree.
Si contano, dai documenti che non sono andati distrutti, circa 92.000 vittime, fucilate dietro il muro della morte e infine bruciate nei forni crematori. Uccise nelle camere a gas con lo Zyklon B, lo stesso agente tossico a base di acido cianidrico utilizzato negli altri campi di sterminio.
Ravensbruck, un lager dimenticato
Il lager di Ravensbrück è stato sostanzialmente dimenticato, nonostante a volerlo fosse stato Heinrich Himmler. Inizialmente il campo doveva essere funzionale al lavoro servile per le grandi imprese del Reich, come la Siemens (che aveva una fabbrica nei pressi del campo e dove parecchi furono gli atti di sabotaggio da parte delle prigioniere). Sabotaggi effettuati su pezzi di lavorazione montati poi negli armamenti da spedire al fronte di guerra.
Il campo è stato una fucina di grandi menti al femminile, concentrate in così poco spazio. Poi mentre il conflitto pendeva a favore degli Alleati, lo si “riconvertì” in vero e proprio campo di sterminio per velocizzare la “soluzione finale”.
Negli ultimi mesi della guerra, dopo che Himmler aveva ordinato la sospensione delle camere a gas, nel lager di Ravensbrück fu impartito un ordine diverso. In una baracca vicino al forno crematorio, si costruì una camera a gas provvisoria, dove 6000 donne trovarono la morte, asfissiate. Fu l’ultimo sterminio di massa del regime nazista.
Sino alla fine della guerra fredda, pochi sapevano dell’esistenza del lager di Ravensbrück e di quanto accaduto al suo interno. Le ragioni di questa dimenticanza sono molteplici. Intanto perché il lager si trovava nella regione del Brandeburgo, territorio tedesco sotto il controllo delle truppe sovietiche.
I martiri delle donne nel lager di Ravensbruck
Ma questa ipotesi da sola non basta, Ravensbrück era sostanzialmente un campo femminile e questo, probabilmente, l’ha rilegato nel dimenticatoio per lungo tempo. Quando le sopravvissute si decisero a parlare nessuno ha creduto a quelle storie orribili; in Unione Sovietica, tante rimasero zitte per paura.
Ogni donna fu privata della propria femminilità con atti che già solo a scriverli adesso si fanno ulteriori violenze. Le sopravvissute si vergognavano di raccontare la loro esperienza vissuta, come se fosse stata colpa loro. O perché rischiavano di essere additate come “bugiarde”, o peggio “complici”, accusate di essersi concesse volontariamente al nemico per salvarsi.
Alcune sopravvissute hanno insistito, invece, sulla necessità di ridare voce a quelle donne che hanno sofferto e che, peggio, non sono riuscite a scampare tale brutalità. Ciò perché occorre raccontare la violenza, il sadismo di capi e kapò, gli esperimenti dei tanti “dottor Mengele”, le sterilizzazioni forzate ad opera delle infermiere di Ravensbrück, che non esitarono ad iniettare nei corpi femminili nitrato d’argento, benzina o massicce dosi di virus e batteri per “esperimenti”, pseudo-scientifici, sulle giovani polacche, chiamate in maniera dispregiativa lapines (“coniglie”) e usate come cavie.
A Ravensbruck anche le violenze delle ausiliarie delle SS
Non furono soltanto uomini a fare violenza su corpi di donne. Furono violenze di donne su altre donne. Le guardiane del campo per lo più erano giovani, “ariane” secondo i dettami nazisti, curatissime nell’aspetto e nell’abbigliamento. Violente e arroganti, erano semplici ausiliarie delle SS, e mere esecutrici dei loro ordini, che avevano risposto con entusiasmo ai bandi di chiamata a partecipare a quel servizio.
Tra il 1942 e il 1945 a Ravensbrück si “formarono” 3.500 ausiliarie attirate dagli appelli sui giornali patriottici che promettevano uno stipendio, inviate poi negli altri lager nazisti. Il campo, dunque, era una perfetta macchina della morte, organizzata in ogni settore. Le prigioniere confezionavano anche le divise per l’esercito tedesco.
Nell’aria si sentiva sempre l’odore pungente del forno crematorio e, con l’avvicinarsi della fine della guerra, le condizioni per le internate peggiorarono. Sparirono il pezzo di pane, la zuppa di rape, le bucce di patata, il caffè del mattino era una brodaglia nera. Alcune avevano ascessi sulla schiena, c’era chi li aveva sul viso, sulle gambe, sulle braccia. C’era chi pesava 32 chili ed era allo stremo delle forze.
1200 italiane internate a Ravensbruck
Nel campo erano internate 45.000 deportate, 1.200 le italiane. Un accordo con la Croce Rossa svedese, voluto da Himmler il 23 aprile 1945, permise la liberazione di circa 7.000 deportate. Poi si ordinò l’evacuazione dei prigionieri in grado di reggersi in piedi. Al freddo, sotto la pioggia battente e con pochissimo cibo, 20.000 internate si misero in marcia verso nord-ovest.
Bisognava fare presto i russi erano alle porte. Le SS non permettevano soste, si fermavano soltanto quando arrivava un aereo, allora ci si doveva sdraiare per terra. Chi cadeva veniva ucciso. Quando la Seconda Armata Sovietica del fronte bielorusso entrò a Ravensbrück trovò 3.000 donne rimaste nelle baracche perché troppo deboli per seguire le compagne. Le superstiti portate in marcia vennero salvate poche ore dopo dalle unità sovietiche che le affidarono agli americani.
Le italiane si scontrarono da subito con l’insensibilità degli alleati, sospettate di aver concesso favori sessuali ai nazisti. Non venne riconosciuto loro neppure il diritto di ricevere i pacchi della Croce Rossa. Tornate in patria, sperimentarono un’accoglienza fredda e gli stessi pregiudizi.
Poi c’era la paura, la paura del dopo, il terrore di fronte all’ignoto che le aspettava. Le accomunava tutte, Lidia e Mirella, come Bianca, Livia e le sorelle Lina e Nella, Maria e Teresa, solo per citarne alcune. Giovani ragazze, all’epoca dei fatti, che divenute donne hanno dedicato la vita alla testimonianza. Non sono più tra noi: Lidia è scomparsa nel 1996, Bianca nel 2013 e Nella nel 2015, Teresa nel 1980, Maria nel 1970. I loro ricordi, tramandati oralmente e per iscritto, sono opere corali che nella drammaticità esortano alla speranza, perché non succeda più.
Giuseppe Lagona