Pubblichiamo un estratto dell’intervento svolto dal prof. Sebastiano Vecchio, a conclusione delle giornate di studi che il Disum (Dipartimento di Scienze umanistiche) di Catania gli ha dedicato sul tema “Il linguaggio come prisma“, dopo il pensionamento dall’insegnamento accademico.
“A questo punto del discorso ci stava bene dire i miei studenti, ma è un’espressione che non ho mai usato. Non che nel possessivo ci trovassi qualcosa di male, il suo senso era chiaro e innocente. Ma era più forte di me, non riuscivo a dirlo, mi sarebbe parso di compiere un’appropriazione indebita. Dicevo sempre e solo «gli studenti».
Sebastiano Vecchio: “Non mi considero un maestro”
Arriva la parte più difficile. Se non riuscivo a dire i miei studenti, tanto meno potrei dire i miei allievi; dirlo significherebbe che implicitamente mi considero un maestro, cosa doppiamente fallace. Intanto perché non mi ritengo tale, ma soprattutto perché non lo sono stato e non lo sono. Potrei aggiungere che docere e discere, i verbi magisteriali per eccellenza, nelle prime battute del De magistro di sant’Agostino non significano affatto “insegnare” e “imparare” ma semplicemente “far sapere” e “venire a sapere”; ma sarebbe troppo facile. Sto cercando di comunicare qualcosa, non di schermirmi. O se volete, di schermirmi argomentatamente.
Il mio non è in alcun modo un prendere le distanze dalle persone più giovani che incontrandomi hanno maturato qualche buona idea; è un richiamarmi alla realtà e al significato delle parole. Perché ci sono due interessanti definizioni di maestro, provenienti dalla stessa fonte. Una dovrebbe essere conosciuta ma è ignorata: «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo», e io non ci rientro. L’altra, rimasta ignota pur essendo pubblicata, è comparativa: «Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti», e io non rientro nemmeno in questa. Per la cronaca, la fonte è don Milani.
Credo di non aver soffocato delle vocazioni scientifiche sul nascere (rischio sempre incombente nell’università), e forse mi è anche accaduto di stimolare qualche aspirazione: questo magari sì. Ma non sopporto chi si spaccia per allievo solo in forza di un esame, e dovrei accettare di essere spacciato per maestro solo perché ho riconosciuto la bravura di chi poi ha confermato autonomamente le proprie doti nel procedere degli studi? Sarebbe un’esagerazione.
Visibilità e presenzialismo
Il fatto è che nella mia vita accademica ho avuto una gran fortuna, a monte e a valle, e a pari quota. E so di non avervi corrisposto in nessuno dei livelli come avrei dovuto. Parlo di vita accademica nella sua globalità, ivi compresi gli scambi con colleghi di altre sedi, l’organizzazione di incontri, la cosiddetta ‘terza missione’, nonché i compiti istituzionali-gestionali. A questi ultimi in verità non mi sono sottratto come ho fatto con gli altri, ma li ho espletati pure in maniera minimale e renitente. Invece la visibilità e una certa dose di presenzialismo nell’accademia sono un dovere, quindi non prendetemi ad esempio.
Per chiudere in modo adatto al mio stato d’animo vi porgo due quartine di una favola morale di Venerando Gangi. «Avia un sceccu disideriu / d’acquistarisi rispettu; / e a lu ‘ntentu so pri junciri, / risulviu mutari aspettu». Si mette addosso una bella pelliccia lucida, si piega le orecchie e se ne va in giro suscitando l’ammirazione e l’ossequio degli altri animali per quella nuova bestia. Tutto contento va a specchiarsi a una fontana e si entusiasma: «Ma non potti poi cunteniri / l’armalazzu lu so briu, / arragghiau pri so disgrazzia, / e cui era si scupriu».
Io, per evitare di essere scoperto, vi ringrazio e mi zittisco”.
Sebastiano Vecchio