A colloquio con Michele Contel (segretario generale Osservatorio permanente su giovani e alcool): tra gli adolescenti rischio di “una normalizzazione dell’uso intossicante delle bevande alcoliche”. “Non servono regole rigide, ma quelle che ci sono – ad esempio l’età minima per comprare alcolici – vanno rispettate”
Niente allarmismi: non tutti i giovani “sballano” con l’alcol. Certo, il fenomeno del “binge drinking”, ossia delle abbuffate alcoliche, è preoccupante e da affrontare specialmente quando sfocia nell’abuso sistematico, ma attenzione a quelle indagini troppo “particolareggiate”, che non mostrano la vera misura del fenomeno. È una posizione che può apparire in controtendenza quella di Michele Contel, segretario generale dell’Osservatorio permanente su giovani e alcool (Opga).
Ricerche divergenti, da interpretare. Ci sono infatti studi che danno esiti preoccupanti: uno fra tutti, quello della Fondazione italiana ricerca in epatologia su 2.700 ragazzi tra i 14 e 19 anni dei licei del Lazio, dal quale emerge, tra l’altro, che il 60% pratica il “binge drinking”. Allargando lo sguardo, per Espad Italia – progetto di ricerca sul tema a livello europeo, coordinato per l’Italia dal Cnr di Pisa – nel 2013 il 76% dei 15-17enni e l’88% dei 18-19enni hanno riferito di aver consumato bevande alcoliche nell’ultimo anno, mentre dall’indagine multiscopo Istat (relativa al 2012) il 42% dei 15-17enni, il 71% dei 18-24enni e il 72% dei 25-34enni ha bevuto nell’ultimo anno. Ancora secondo Espad, 2 milioni di studenti italiani hanno bevuto alcolici almeno una volta negli ultimi 12 mesi, ma il 55% lo ha fatto meno di dieci volte e il 20% una volta al mese. Solo un quarto, ovvero 500mila, beve in maniera più assidua. I numeri possono sembrare preoccupanti, ma non è la stessa cosa bere una birra e ubriacarsi tutte le settimane. Allora, per i nostri giovani, l’alcol è davvero un problema?
Cos’è il “binge drinking”? Innanzitutto è bene fare chiarezza sui termini. Il “binge drinking”, concetto introdotto in Italia negli anni Duemila, descrive il consumo di un determinato numero di bevande alcoliche (5 o 6) in un’unica occasione. L’età, poi, è una discriminante fondamentale. “Il giovane che beve, non automaticamente ‘abusa’ di alcool. E poi, anche all’interno dei comportamenti di abuso, non tutti sono ugualmente dannosi”, chiarisce Contel, ricordando che il danno è maggiore nei minorenni, per i quali il consumo – e l’abuso – di alcol è sconsigliato “per la plasticità neuronale e perché non hanno sviluppato gli enzimi che ne consentono lo smaltimento”.
Consumi alcolici in calo. Poi bisogna distinguere chi beve un po’ da chi sballa, come pure ci sono differenze significative circa la frequenza del ricorso all’alcol. Di sicuro il segretario dell’Opga – dati alla mano – esclude che l’abuso di alcool sia un problema nuovo, e men che meno in crescita. Anzi, “le tendenze recenti di consumi di bevande alcoliche in Italia sono all’insegna della stazionarietà all’interno di una macrotendenza, in atto da decenni, di riduzione dei consumi”. E se l’Europa, a livello mondiale, è il continente in cui si beve di più (oltre 10 litri l’anno, con punte di 12 litri in Francia e ancora superiori nei Paesi dell’Est), l’Italia rappresenta una “anomalia”, con un consumo annuo medio pro-capite di 6 litri.
Cultura tradizionale e trasgressione. Piuttosto, il Belpaese ha un modello d’iniziazione al bere “mediato da una cultura tradizionale: si comincia presto, in un contesto familiare e sociale che vive il bere come una ritualità”. Nulla a che vedere con lo sballo, cui i giovani si avvicinano nell’età adolescenziale, “perdendo il contatto con la cultura di un consumo controllato, dove l’elemento del gusto e la moderazione sono importanti”. Al vino subentrano la birra con gli amici, ma anche superalcolici come esperienza trasgressiva. “Il ‘binge drinking’- osserva Contel – s’inserisce in questa fase di sperimentazione, talora trasgressiva, dove il controllo sociale viene meno e la bevanda diventa una scorciatoia per lo sballo”, con il rischio di “una normalizzazione della cultura dello sballo e dell’uso intossicante delle bevande alcoliche”, come avviene nelle culture nordeuropee e anglosassoni.
Una ricetta contro lo sballo. Che fare? La formula potrebbe essere “meno divieti e più accompagnamento”. “Per non alimentare la cultura dello sballo – precisa Contel – servono mediatori educativi e legislatori intelligenti. Non servono regole rigide, ma quelle che ci sono – ad esempio sull’età minima per comprare alcolici – vanno rispettate”. Serve “maggiore investimento nei fattori protettivi senza trascurare quelli preventivi”. Non solo non è ammissibile, ad esempio, che nelle discoteche si “chiuda un occhio” sulle consumazioni al tavolo, ma chi le gestisce deve “fare campagne di educazione, convenzioni con i taxi, pulmini per riportare a casa i giovani”. Senza accomunare in un unico allarme chi beve ogni tanto con moderazione e chi con l’alcol si rovina la salute.
Francesco Rossi