L’8 maggio è un giorno di festa e in molte città le commemorazioni registrano anche il suono delle campane. È patrimonio condiviso la presa di coscienza popolare dei terribili eventi bellici, in particolare della “Schuldfrage”, la questione della colpa, sulla quale, a partire dal “processo Auschwitz” è cambiato, sia pure lentamente, l’atteggiamento generale.
Per la prima volta il discorso che l’8 maggio commemora al Bundestag l’anniversario, in questo caso il settantesimo, della fine della guerra e della sconfitta del nazismo è tenuto non da un rappresentante della politica ma da uno storico, Heinrich August Winkler. Autore di opere fondamentali, docente nelle più importanti università del suo Paese, è tenace avversario delle teorie del “riduzionismo”, spacciate da Ernst Nolde, circa le responsabilità della Germania nella tragedia europea, con analisi senza indulgenze sulle colpe del Terzo Reich nel carnaio della seconda guerra mondiale.
Un altro evento riguarda il cinema. Sta avendo successo in Germania e in Francia “Il labirinto del silenzio”, film di un esordiente regista italo-tedesco, Giulio Ricciarelli, premiato al festival di Toronto. È la storia di un giovane procuratore che ha demolito il muro dell’omertà quando, nel 1958, cominciò a indagare su un gruppo di aguzzini di Auschwitz. Saranno necessari anni, il sostegno del procuratore capo di Stoccarda, Fritz Bauer, vecchio antinazista, la collaborazione di uno sparuto manipolo di altri giudici per aprire nel 1963 il “processo Auschwitz” che portò alla condanna di 22 assassini, sino ad allora impuniti, con un enorme impatto sull’opinione pubblica. Fu detto: “In un solo colpo, il male ebbe un nome, un viso e un indirizzo”.
I due eventi si sposano con la commemorazione tedesca dell’8 maggio, ricordato in molte città con il suono delle campane, numerose manifestazioni, la giornata festiva e iniziative pubbliche. La cosa più importante è la presa di coscienza popolare di quegli eventi, in particolare della “Schuldfrage”, la questione della colpa, sulla quale, a partire dal “processo Auschwitz” è cambiato, sia pure lentamente, l’atteggiamento generale. Il cancelliere Ludwig Erhard non pronunciò la parola “colpa” nel discorso ufficiale del 1965 e venti anni dopo il presidente della Repubblica Richard von Weizsaecker alluse a quegli anni, sia pure severamente deplorandoli, come alla “fine di un percorso errato della storia tedesca”; oggi la Merkel, senza mezzi termini, invoca “la responsabilità eterna della Germania nella Shoa”.
Il merito principale va a una generazione di studiosi (fra i quali appunto Winkler) che dagli archivi ha tratto verità scomode, e a una stampa che ha popolarizzato quelle conoscenze, insieme con la memorialistica, le testimonianze dei martiri del nazismo, le inchieste interne dei vari ministeri. Da cui sono emerse situazioni, trascinatesi per anni nel dopoguerra, di complicità e omertà fra alti dirigenti compromessi con il nazismo. Diplomatici che hanno continuato le loro carriere nella nuova Germania erano reperti del regime, generali e ammiragli negli alti gradi della Bundeswehr “democratica” avevano condotto la “guerra sporca” di Hitler, giudici erano coestensori delle leggi liberticide e razziste del regime.
Nessuno di loro, con industriali, intellettuali, giornalisti complici del dodicennio nazista, si è mai giustificato. A differenza delle Chiese che hanno avuto il coraggio di riconoscere le loro responsabilità anche se durante i dodici anni del regime cattolici e protestanti avevano resistito alzando la voce quando potevano, al di là da ogni convenienza e sotto rischio, ribadendo il primato dei valori morali e della dignità dell’uomo, pagando con i loro martiri. Per prime le Chiese hanno espresso pubblicamente, subito dopo la fine del conflitto, la consapevolezza delle loro mancanze di coraggio e di testimonianza. Il 23 agosto del 1945 lo fece la Chiesa cattolica, con la Dichiarazione di Freysa dei vescovi, chiedendo perdono per le colpe proprie e di tutti; due mesi dopo i protestanti giunsero a conclusioni analoghe a quelle dell’episcopato cattolico. Nessun altro lo ha fatto; soltanto il lavoro degli storici permette di attribuire a ognuno il ruolo che ha effettivamente avuto.
Ma oggi c’è un elemento consolante: la consapevolezza di almeno una parte delle giovani generazioni sui valori della libertà e della dignità dell’uomo, come si deduce dalle inchieste e dai servizi che i media tedeschi hanno sfornato. Per tutti, la risposta di uno studente delle superiori: “L’8 maggio 1945 è una parte della mia identità tedesca, improntata dall’istruzione e dalla democrazia”.
Angelo Paoluzzi