Hagia Sophia / La riconversione a moschea sacrifica la religione alla sola espressione del culto

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Erano tanti ad Istanbul, e non solo occasionali fedeli, alla preghiera del venerdì nella basilica di Hagia Sophia. Tra loro capi di stato invitati dal Presidente turco, per partecipare ad un atto da più parti letto come una rottura della impostazione laica della Turchia, quasi una revoca del volere di Ataturk di pensare a quel luogo come museo in cui far convivere l’origine cristiana del complesso con gli intrecci del passaggio alla dominazione islamica.
Non si sono fatte attendere, poi, prese di posizione e tanti appelli tutti con un denominatore comune: Santa Sofia è patrimonio dell’intera umanità che non può essere oggetto di appropriazione e uso particolare per le note vicende storiche che nei secoli l’hanno vista simbolo del Bosforo, oggetto di lustro e finanche di scambio tra interessi differenti e contrapposti.
Ma è davvero così che va letta l’intera vicenda?
Più di qualcuno – ormai si sono moltiplicati – riscopre nella riconversione in moschea un’affermazione dei fasti ottomani, mentre da parte turca si sintetizza la scelta nel più ordinario linguaggio dell’esercizio di un diritto sovrano, di affari interni. Eppure la scelta operata, affidata al linguaggio del diritto, sembra chiudere definitivamente la distinzione tra laicità e manifestazioni di culto. Culto, certo. È questo il termine che riempie le pagine di appelli, proclamazioni e prese di posizione. Guardando, però, al susseguirsi di episodi e fatti, all’attenzione posta sull’idea di una coesione dell’area turcomanna intorno ad interessi per territori e risorse, un interrogativo si affaccia: ma è davvero una questione di culto?
Il 1° agosto è vicino. In quella data, 45 anni or sono, veniva sottoscritto da paesi geograficamente collocati da Vancouver a Vladivostok, Turchia compresa, l’Atto finale del processo di Helsinki. Qualcosa che avrebbe cambiato la storia e non solo quella d’Europa, sottolineando tra le altre novità il trionfo della libertà, ma non a caso esemplificato nel passaggio dalla sola libertà di culto alla libertà di religione.
Un’apertura epocale e strutturale, capace di garantire la scelta di una religione e il fatto religioso non solo negli spazi fisici, nei luoghi di preghiera, ma nelle diverse manifestazioni della vita del credente.
Nella libertà di “professare e praticare solo o in comune” non c’è solo un culto ma una dimensione religiosa completa, che impone al cittadino-credente il solo obbligo di agire “secondo i dettami della propria coscienza”.
Al di là della legittimità di una legge, di una sentenza o di un atto giudiziario, ad essere elemento costitutivo di una libertà, la volontà degli Stati ha posto la coscienza. Immateriale per alcuni, inafferrabile e ideologica per altri, resta forse l’elemento estraneo agli avvenimenti di Santa Sofia, estraneo alla circostanza che ha nuovamente privilegiato la libertà di culto rispetto alla libertà di religione, subordinando il primato della coscienza alla sola ritualità del culto ammesso. Una concessione legata alla volontà di chi l’ha decisa e che potrebbe anche proibire o dirigere, magari mutando a piacimento, la decisione e le limitazioni poste.
Ecco il rammarico più grande, quello di vedere d’un sol colpo non semplicemente coperti mosaici o raffigurazioni, ma riportato indietro l’orologio delle acquisizioni del diritto internazionale, sacrificando la religione alla sola espressione del culto.
E come dimostra la successione delle vicende legate a Santa Sofia, il culto è qualcosa che può cambiare, oggi, ma anche domani. La libertà di religione è invece qualcosa di connaturato alla dignità della persona, che non varia poiché risiede nella coscienza di quanti credono, “immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali o di qualsivoglia potere umano”, come insegna il Vaticano II nel considerare quella libertà espressione della dignitatis humanae.
Che sia questa la lettura da proporre, anche per il futuro della Hagia Sophia? Certamente è una proposta lontana dall’idea di un pantheon in cui ogni divinità trova spazio e privilegi o dove ci si limita all’esercizio di atti di culto e riti ripetuti, concessi. È piuttosto un monito per garantire chi crede ed un esempio del trionfo della coscienza.

                                                                                                    Vincenzo Buonomo
Professore di diritto internazionale

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