Dopo che il governo cinese ha deciso di limitare l’elettorato passivo anche in occasione delle elezioni per la scelta del governatore di Hong Kong – il “Chief Executive” – che si terranno nel 2017, dal 22 settembre migliaia di persone, soprattutto studenti e famiglie, protestano per rivendicare i diritti democratici che il Partito Comunista si ostina a negare.
La regione amministrativa speciale, britannica dal 1842, è stata governata dal Regno Unito fino al 1997, quando a seguito degli accordi stipulati nel 1984 fra Zhao Ziyang e Margaret Thatcher è tornata sotto la sovranità di Pechino, pur mantenendo un certo grado di autonomia rispetto al resto della Repubblica Popolare. Una capitale finanziaria dinamica e multiculturale alla quale il Partito aveva garantito un ampio grado di libertà secondo lo schema “un paese, due sistemi”, presto sconfessato. Già da mesi la società civile chiede a Xi Jinping ed all’attuale governatore Leung Chun-ying di fare un passo indietro. In particolare il movimento “Occupy Central”, guidato dal professore di Legge Benny Tai, dal sociologo Chan Kin-man e dal reverendo Yu-ming, ha posto per primo la questione, annunciando il dissenso. Ma alla fine del mese scorso alcuni leader studenteschi, fra cui il diciassettenne Joshua Wong, arrestato e poi rilasciato, hanno anticipato gli adulti e sono pacificamente scesi in piazza invocando gli stessi diritti riconosciuti in una qualsiasi liberaldemocrazia. Durissima la reazione della polizia.
In questo clima di fermento è significativa la presenza della Chiesa. I cattolici sono una minoranza – circa trecentocinquantamila su oltre sette milioni di abitanti –, però da sempre si caratterizzano quale autorevole opposizione al regime. Il Vescovo John Tong Hon ha infatti dichiarato di condividere le istanze della popolazione e l’Arcivescovo emerito Joseph Zen ha incoraggiato i giovani a non mollare, sostenendo che una retromarcia sarebbe interpretata dall’establishment – sia politico, che finanziario, preoccupato dalle potenziali ripercussioni sui mercati – come un segnale di debolezza. Un braccio di ferro con Pechino – ad armi impari: da una parte gli ombrelli, divenuti il simbolo della marcia nonviolenta e dall’altra i gas lacrimogeni –, che teme il dilagarsi del malcontento nelle altre regioni critiche della Cina. L’ultimatum è categorico: entro il 6 ottobre, i manifestanti dovranno disperdersi, altrimenti lo sgombero sarà violento. I manifestanti hanno aderito in parte, lasciando liberi corridoi di accesso agli uffici pubblici; ma rimangono presidi sul posto. Un fronte sempre più caldo che attira l’attenzione della comunità internazionale e che l’uso delle moderne tecnologie digitali consente di seguire in tempo reale. Mentre sappiamo ben poco del massacro di piazza Tienanmen, “Occupy Central” è costantemente in rete, con un sito ed un account Twitter in lingua inglese. Una forza da non sottovalutare, quella del web, a pochi giorni dall’esplosiva IPO di Alibaba, il portale di e-commerce fondato dal cinese Jack Ma, che in termini di transazioni da solo supera eBay ed Amazon messi assieme. Ormai specie i giovani hanno compreso quanto potenti siano gli strumenti informatici; come la rete possa mettere in discussione una struttura che si perpetua da decenni e che non vuole arretrare. «Dobbiamo resistere. Dopo i lacrimogeni dobbiamo resistere. Non abbiamo più altra scelta se non resistere fino a che il governo non ci ascolterà», ripete il cardinale Zen. È ancora presto per prevedere l’epilogo di questi fatti. Una cosa è certa: il percorso verso la libertà non è né semplice, né scontato ed i ragazzi di Hong Kong stanno dando al mondo intero una storica lezione di coraggio. Con i riflettori addosso, Pechino è nuda.
Elia Torrisi