Quello svoltosi ieri sera allo Sheraton di Aci Castello è stato un evento singolare, che riaccende i riflettori su una vicenda giudiziaria di oltre trent’anni fa, la battaglia per la “giustizia giusta”, così definita da Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, nel presentare la sua creatura: il libro “Lettere a Francesca”.
Enzo Tortora, uno dei personaggi televisivi più noti e seguiti della Tv, fu accusato di essere camorrista; processato, fu condannato a dieci anni di carcere in primo grado e assolto con formula piena in secondo.
Il caso divise l’opinione pubblica e scatenò accuse e polemiche contro i magistrati responsabili degli errori in danno di Tortora, ma anche contro la magistratura; non fu indenne neanche il mondo dell’informazione, dentro il quale diversi giornalisti si schierarono contro Tortora.
Il libro contiene le lettere che il conduttore della nota trasmissione televisiva Portobello scrisse alla giornalista, durante i sette lunghi mesi di detenzione in carcere, dal clamoroso arresto del 23 giugno 1983 al 17 gennaio 1984, quando vennero disposti gli arresti domiciliari. Insieme con Francesca relatori sono stati Vania Patanè, Maurizio Caserta, Francesco Merlo, Bruno Montanari. Francesca Scopelliti, su invito del moderatore Montanari, ha parlato del libro e di come per più di trent’anni queste lettere siano rimaste gelosamente custodite in un cassetto, perché ritenute “affetti ed effetti personali” e quindi da tenere per sé; la Scopelliti ha rivelato di essersi ricreduta pensando che, alla sua morte, sarebbero divenute carta straccia; così, se pure rileggere queste lettere a distanza di anni fosse sempre un pugno allo stomaco, ha pensato che fosse necessario continuare a dar voce e soprattutto giustizia ad Enzo.
Proprio così, perché quelle lettere non sono solo parole di un uomo recluso innocentemente che dialoga con l’unico bagliore di luce, la donna amata, ma lettere – denunce nelle quali traspare umiliazione, speranza, rabbia e indignazione verso un sistema a cui un uomo per bene ripone fiducia e da cui, invece, riceve solo condanna.
Scene da film polizieschi, quelle rievocate dalla Scopelliti: arresto all’alba con tutti gli “onori” che si riserverebbero ad una star, macchine fotografiche, telecamere, sembrava la scena di un set, tutto costruito ad hoc; con l’auto, su cui verrà poi trasportato, posizionata a cento metri dalla porta dell’albergo dove alloggia, tutto pronto per girare un bel film, ma non si tratta di un film ma della vita di un brav’uomo che stava per essere distrutta. Enzo fu accusato di essere un camorrista da due collaboratori di giustizia, con curricula criminali efferati, che non erano certamente credibili, Pasquale Barra e Giovanni Pandico.
Ma cosa esisteva realmente a carico di Enzo? Così che la sua amata lo chiama durante il suo racconto, con gli occhi dolci ma con tanta sete di giustizia, per un uomo che gli è stato portato via, un uomo condannato ingiustamente cui ad oggi nessuno ha chiesto scusa, un uomo perbene che non è più rimasto lo stesso, un uomo che la malattia, dopo la cattiva giustizia, ha divorato; e tutto questo Francesca non lo perdona.
In questa bella terra isolana, Francesca Scopelliti ha rivelato che si sente vicina alla Sicilia, anche perché ha compiuto gli studi a Messina ed è di origini calabresi, ma ancor di più perché in Sicilia ci sono tante vittime di mafia; ha ricordato Falcone e Borsellino ma ha tenuto a precisare che “questi erano uomini dello Stato, e sono morti, purtroppo, per fare il loro lavoro, ma Enzo non lo era”.
Ha chiesto per questo l’aiuto a tutti noi per continuare a lottare per il caso Tortora e ci terrebbe che fosse intitolata a lui una aula di tribunale; all’annuncio di questa prossima battaglia civile ha risposto con un caloroso applauso la gremitissima aula e Francesca ha risposto con un grande sorriso.
La giornalista calabrese ha puntualizzato che il caso Tortora non è un “errore giudiziario” ma un vero e proprio “crimine giudiziario”, edificato attraverso un circo mediatico: Enzo era molto conosciuto, era una persona molto riservata e conduceva una vita semplice, circondandosi di pochi amici come Sciascia, Montanelli, Biagi.
Si è soffermata a leggere qualche passo delle lettere durante il suo racconto; dei magistrati Tortora scriveva: “Non hanno niente in mano… Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati”, ed ancora: “Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza. Questo Paese non è più il mio”, “Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano”. E tanti altri passi nei quali emergono la sofferenza per la detenzione, le conseguenze fisiche e psicologiche della privazione di libertà con delle espressioni che fanno proprio commuovere: “Guarda per me il mare, baciami un fiore”.
Francesca ha ricordato la forza di Enzo, di come quell’esperienza allucinante lo avesse spinto non solo a voler provare la sua innocenza ma a volersi occupare del sistema giudiziario: “Il mio compito – diceva – è far sapere, battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali”. E del Natale: “… da qui, è semplicemente ridicolo. L’ho passato rileggendo L’asino d’oro di Apuleio. Si è impiccato in cella un uomo. Una scena atroce. Siimi vicina, cicciotta mia. Ti dico: buon Natale, va bene?”
Francesca ha concluso sottolineando come sia triste, dopo trentatré anni, l’attualità di queste denunce, perché ciò significa che la giustizia non ha fatto passi in avanti e che la vicenda di Enzo non è servita a niente.
Maria Pia Risa