Non conosciamo ancora i dati di ascolto della serata televisiva di ieri e quindi non sappiamo se “1992”, la serie su Tangentopoli nata da un’idea di Stefano Accorsi, seguirà le orme del successo di “Gomorra” che ha fatto la fortuna italiana di Sky. Di sicuro possiamo dire della nostra fatica personale, di giornalisti, nell’assistere al racconto fatto da altri, di vicende che per ragioni professionali abbiamo seguito e narrato, giorno dopo giorno, per anni. Peraltro con la consapevolezza che quei giorni del 1992 sono stati decisivi per i vent’anni a seguire. Hanno determinato la fine della Prima Repubblica e hanno aperto una fase d’incertezza politico-istituzionale che tarda ancora a chiudersi. Senza averci lasciato in eredità un Paese meno corrotto. Anzi, a giudicare da quello che vediamo, dal susseguirsi incessante degli scandali e delle ruberie, ci chiediamo come abbiamo fatto noi italiani normali, a sopravvivere a tutto questo. E soprattutto, come tanti di noi, la maggioranza silenziosa degli italiani, abbiamo potuto conservare quel minimo di onestà e di decoro che forse ha salvato il Paese dal naufragio.
Del racconto televisivo si occuperanno altri più esperti di noi e certamente avremo modo di leggere di tutto e di più. Di sicuro, la narrazione seriale restituisce un’immagine di Paese corrotto e corruttibile. Incline ad ogni più basso compromesso morale. Anche i personaggi positivi, o presunti tali, non vengono scavati. Perché il male, come con “Gomorra”, è assoluto. E in quanto tale destinato comunque a vincere. A impadronirsi dei cuori e degli ascolti televisivi. Secondo quella strada ormai imboccata da una gran parte della produzione culturale italiana che, salvo rare eccezioni, ha mandato definitivamente in soffitta il “lieto fine”.
E ci domandiamo: se un Paese non riesce nemmeno a immaginarlo un “lieto fine”, come potrà mai costruirlo?