In un’epoca dissacrata e dissacrante come la nostra in cui, smaliziati come siamo, interrogativi e tabù sono caduti, chi si preoccupa più del puro o dell’impuro? Solo i nostri fratelli ebrei rimangono fedeli, non ad un codice etico ma a quello che considerano un comando che proviene dall’Altissimo e ne osservano con ogni cura la distinzione.
Il vertice dell’impurità, in fatto di malattie, era proprio la lebbra, che comportava non solo sofferenze fisiche e degradanti ma anche l’esclusione peggiore per una persona ritenuta “impura”, tanto grave “da escluderla dai rapporti sociali”.
Anche oggi i legami stretti con parenti e amici hanno un peso non indifferente nelle nostre scelte, nello stile di vita, ma allora, ai tempi di Gesù, il clan era il solo grembo in cui poter vivere. Esserne espulso significava la morte civile, non avere più contatti con nessuno, essere relegati in una solitudine tanto più pesante quanto più carica di paura e di disprezzo.
Papa Benedetto ci esorta a penetrare nella parola evangelica su due piani diversi, quello or ora accennato della malattia fisica e delle sue tragiche conseguenze, e quello della malattia che abita il cuore della persona umana e comporta conseguenze ancora più tragiche, perché segnate da un destino irreversibile: la possibilità di autoespellersi dal Regno di Dio, dal poter contemplare, varcata la soglia del tempo, il Suo Volto.
Gesù che avvicina il lebbroso compie una guarigione non solo umana ma salvifica, che fora tutti i secoli: “In quel gesto e in quelle parole di Cristo c’è tutta la storia della salvezza, c’è incarnata la volontà di Dio di guarirci, di purificarci dal male che ci sfigura e che rovina le nostre relazioni”.
Il contatto fra l’Uomo-Dio e l’uomo-terra malato si sporge più in là e rivela il Dio, Padre buono, sempre attento alle sue creature per indicare loro quale sia il nodo della salvezza: riconoscere il gesto di avvicinamento di Gesù, lasciarci guarire, purificare non solo da una malattia fisica ma da quella grave inclinazione al male inscritta nella debolezza della nostra carne.
Viene spezzato il legame fra puro e impuro, perché Dio stesso tocca l’impuro per definizione, colui che dal male è intaccato, “non certo per negare il male e la sua forza negativa, ma per dimostrare che l’amore di Dio è più forte di ogni male, anche di quello più contagioso e orribile”.
In un regime di puro/impuro l’amore si poteva manifestare a distanza, nel ricordo vigile, nell’assistenza remota; ora, con il mistero dell’Incarnazione che ha squarciato i nostri giorni irrompendo nella storia, l’amore tocca, entra in contatto, i rapporti sociali vengono liberati, resi trasparenti al dono di sé.
Il Salvatore addossandosi “le nostre infermità, si è fatto ‘lebbroso’ perché noi fossimo purificati”. Da noi non sono cadute le scaglie dell’epidermide, non sono scoppiate le pustole e la carne è rinata sana e giovane, da noi è caduta l’autocentratura, il sentirsi misura di tutto e di tutti, l’ergersi al di sopra, sempre ottimo, di ogni evento, soprattutto di ogni guadagno. Dall’orgoglio, afferma il Papa, Francesco fu guarito e poté compiere la sua mutazione “e lo convertì all’amore di Dio”. Non c’è lebbra peggiore di chi lascia vibrare in sé la corda dell’orgoglio, che falsifica ogni suono, corrode ogni gesto. È una sorta di basso continuo che abita nel profondo ed è pronto a riemergere con voce di solista in ogni momento, senza preavviso, tanto è radicato in noi con potenza.
Nell’impotenza di guarirci, ci viene in soccorso il Figlio di Dio: “Ecco la vittoria di Cristo, che è la nostra guarigione profonda e la nostra risurrezione a vita nuova!”. Dilatiamoci a questo tocco che ci purificherà, la ricaduta però è nelle nostre mani, “usiamo misericordia verso i nostri fratelli!”.
In concreto? Un triplice impegno: “Privilegiare la via del dialogo, della riconciliazione e dell’impegno per la pace”. In Siria indubbiamente, ma in qualsiasi piccolo luogo si viva. Solo allora l’orgoglio sarà vinto.
Cristiana Dobner