Il vescovo di Acireale, mons. Nino Raspanti: “Senza umiltà non esiste virtù”

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Mons. Nino Raspanti è stato appena ordinato Vescovo di Acireale. Pubblichiamo  l’intervista realizzata  prima della consacrazione.


– E ora che il gran momento è alle porte, come si sente? “Sono molto contento, il fatto di non conoscere cosa mi aspetta aggiunge un pizzico di vertigine e libertà – ammette – ma non do nulla per scontato e ho un certo tremore”.

– Ma cosa si aspetta? “Mi aspetto serenità e lucidità nell’impatto con la realtà e con le persone. Spero di essere io stesso lucido e sereno”.

– Come intende muoversi all’inizio del suo ministero episcopale? “Vedremo man mano, da parte della diocesi immagino entusiasmo, e tanta curiosità su chi sono, cosa voglio fare, dove voglio andare. Però mi aspetto anche collaborazione”.

-Nel suo stemma si fondono presente e passato della sua storia personale e religiosa, le sue radici e gli obiettivi. Me ne parla? “È strutturato in tre campi: nella parte superiore ci sono tre anelli che si intersecano e la stella, perché ho chiesto che venisse rappresentata la tensione ideale: la trinità e Maria, il modello della Chiesa. Mi ha sempre molto toccato la peculiarità del cristianesimo, la sua vitalità, la relazione misteriosa tra le tre persone. E io credo che matureremo come Chiesa nella misura in cui entreremo nel mistero della trinità e non nel pensiero di un dio generico del mondo indifferenziato, che tende a perdere lo specifico dell’evangelizzazione. Maria è maternità, generazione, vita, nella Chiesa e per la Chiesa. Questo rappresenta il mio mondo interno, mentre nei due campi inferiori c’è la mia storia: l’aquila è il simbolo della facoltà teologica di Sicilia, i faraglioni rappresentano il mio futuro, qui”.

– Quali sono i suoi “maestri” di riferimento, quelli che l’hanno più formata? “Padre Albert Deblaere, un fiammingo di Bruges che era alla Pontificia Università Gregoriana a Roma. Più di tutti mi è rimasto impresso, rividi subito in lui ciò che cercavo da giovane quando scelsi il titolo di un corso di specialistica: il divorzio tra teologia e spiritualità. Io avevo sempre percepito questa cosa e andrai a seguire il suo corso, soddisfece la mia voglia di cogliere l’unità di studi che sembravano frammentari. Oltre a lui, ricordo alcuni professori: mons. Crispino Valenziano, don Salvatore Privitera, Francesco Conigliaro. Ma anche alcuni sacerdoti della mia città, i padri gesuiti e salesiani di Alcamo”.

– Ha scelto come motto episcopale «Humilitas ac Dulcedo». Controcorrente rispetto allo spirito dei tempi. “Me lo suggerisce Francesco di Sales, che coltivava la vita spirituale, ma era un vescovo molto attivo. Avverto che incarna le due anime che sento di portare dentro: l’umiltà, poi, mi sembra il fondamento su cui si può edificare ogni palazzo, sennò non c’è possibilità alcuna che una virtù sia virtù”.

– Come S. Francesco di Sales, quali saranno i suoi «manifesti» per raggiungere anche i fedeli più lontani? “Anche Facebook, se è il caso. Lui dovette inventarsi i manifesti per necessità: non poteva entrare a Ginevra, e allora inventò l’ipotesi di scrivere fogliettini e li faceva appendere ai quadrivi così la gente poteva sapere dove sarebbe andato a predicare. Se Facebook è un modo, va bene anche questo. D’altronde io vorrei comunicare, anche coi lontani. È un’attitudine della mente e una disposizione del cuore”.

– «Se sbaglio, voglio sbagliare piuttosto per troppa bontà che per troppo rigore». Lo diceva S. Francesco di Sales. Condivide? “Certo che sì: S. Francesco di Sales era stato educato alle grandi scuole dell’umanesimo, studiò a Padova. Lui aveva un’umanità straordinaria, rifuggiva gli eccessi e si rendeva conto che bisogna essere molto esigenti ma non rigidi: bisogna tentare di commisurare sempre al passo di ciascuno le esigenze”.

– Viene dal mondo accademico, ha insegnato per 27 anni e per 7 è stato preside della Facoltà Teologica di Sicilia. Cosa le è rimasto da questa lunga esperienza? “Me ne accorgerò quando sarò da voi perché avrò preso distanza da questo mondo. Penso che la metodicità e la tendenza a razionalizzare i problemi e la visione della realtà potrebbero aiutarmi”.

– Vivendo nel mondo accademico, è stato a lungo a contatto coi giovani. Cosa ha imparato? “Che i giovani sono la fascia della società più delicata, che hanno bisogno di enorme sostegno. Sensibilità e attenzione sono necessarie, dall’altro il fatto che su di loro si scarichino i maggiori disagi rende difficile decifrarli. Bisogna essere attenti e disponibili a impiegare tempo nell’ascolto”.

– Qual è secondo lei il bisogno più urgente del mondo giovanile? “Quello di essere ascoltati. Siete schiacciati, e non dall’attenzione dell’agenda politica di oggi, perciò siete compressi, bloccati. Questo produce frustrazione e spinge, per decomprimere, verso reazioni poco sane”.

– Lei è giovane, dinamico e al passo con le tecnologie. Quale spazio riserverà alla comunicazione? “In realtà non sono molto preparato, sono un praticone in campo tecnologico. Però mi attacco al carro: a volte, in passato, ho proposto cose che non sono state avvertite da chi era intorno come cose urgenti ma ancora un po’ distanti, come elucubrazioni. Racconto un aneddoto: alcuni anni, ero già preside, si affacciò l’ipotesi di attivare una cultura della qualità per le certificazioni. A me sembrava una cosa urgente e ho cercato di attivarmi a Palermo. Lì per lì mi presero come un marziano, qualcuno disse che ero eccessivamente precipitoso. Mi dispiacque, ma ero il preside, trovai collaborazione in altri più sensibili e ci attivammo. Questo fece sì che poi arrivò una lettera dal dicastero, eravamo stati scelti tra 180 come progetto pilota, primi in Italia e tra i primi in Europa. Ci siamo ritrovati in prima linea con una certificazione acquisita. È costata una fatica immane, ma io mi chiedo: una sorta di fuga in avanti nella realtà circostante non rischia di rimanere una situazione isolata che non si radica? Non è semplice, mi chiedo sempre in che direzione vado. Qualche idea posso averla, ma bisogna vedere se può produrre frutti. Tornando alla domanda, sulla questione comunicativa voglio riflettere, certamente non da solo: ne parleremo assieme”.

– Ha fondato, nel trapanese, la Confraternita Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, che dedica molto spazio a incontri di formazione ed esercizi-ritiri spirituali. Nella nostra zona, in questo senso, c’è un po’ di crisi di vocazioni. La tenace spiritualità, comunque, la pone in continuità con l’operato di mons. Vigo. Ha avuto modo di conoscerlo? “Lo conoscevo da prima, non avevo grande confidenza ma lo conoscevo”.

– Ci sarà continuità in questo senso? “Mons. Vigo mi ha chiesto di potere continuare a frequentare Vena per dei ritiri una volta al mese, ovviamente ho detto di sì. Non può non esserci continuità, perché la spiritualità costituisce anche me. L’esperienza della confraternita esiste da 13 anni e coinvolge circa 50 persone su diverse gradualità, si sono avvicinate e saranno con me il giorno della consacrazione”.

– Posto di fronte ad un impegno così importante, quale è la sua più grande paura? “Di danneggiare la Chiesa o qualche persona. Capisco di essere guardato, nel bene e nel male, capisco che posso fare danno e bloccare il cammino di fede di qualcuno”.

– Conferma il suo proposito di dimettersi da tutti gli altri incarichi? “Già fatto”.

-Vuole dirmi qualcos’altro? “Grazie”.

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