Quello che ci apprestiamo a compiere è un piccolo viaggio nel passato per rintracciare quale è stato il rapporto tra le epidemie e il vino. Partiamo dal trecento e dalla sua devastante “mortifera pestilenza” raccontata da Giovanni Boccaccio nel Decameron. La peste nera del 1348, importata dai ratti nelle galere dei genovesi di ritorno da una crociata a Costantinopoli, segnò drasticamente il calo della produzione anche se si diffusero subito delle cure anti-contagio proprio a base di vino.
In vino salus. Un medico fiorentino dell’epoca, tale Tommaso del Garbo, raccomandava di mangiare “pane intinto nel vino, e le famose panacee quali la triaca e il mitriato, oltre ai chiodi di garofano”, il cui profumo, secondo la sua esperienza, possedeva un’azione disinfettante. Una volta lasciata la stanza di un malato il visitatore doveva lavarsi le mani e la bocca con aceto e vino.
Secondo una vulgata senese un frate francescano usò il vino impiegato solitamente durante l’omelia per curare gli appestati. Da qui si diffuse la convinzione che avesse miracolose proprietà terapeutiche, e con essa l’appellativo di “santo”. Nacque così il passito Vin Santo.
Una carestia senza precedenti. La diffusione della peste nera coincise con alcuni
stravolgimenti climatici: ci fu un periodo di raffreddamento della terra dovuto allo spostamento del suo asse e ad una riduzione del riscaldamento del sole, con conseguenti carestie e calo di produzione del frumento. Scarseggiarono carne e latte, fondamentali per l’alimentazione, e si indebolì la popolazione.
Allo stesso tempo, per la mancanza di temperature adeguate, anche il vigneto andò incontrò a una fase di declino. Poiché la qualità del vino in Europa centrale era scarsa si aprirono nuove finestre di mercato che favorirono altri vini come la Malvasia del Mediterraneo orientale, della Grecia in particolare, ciò grazie solo a chi aveva un certo reddito come l’alto clero e la nobiltà.
Si legge nel Decameron: “E così, lavati quattro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diete bere a messer Geri e a compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto”.
Poi, in ordine cronologico, seguirono la Grande Peste del Seicento, raccontata da Alessandro Manzoni nei “I Promessi Sposi”, e la spagnola portata in Europa nel 1918 dai soldati americani nella Prima Guerra Mondiale.
La peste del seicento. Nel 1630 la peste iniziò a manifestarsi nel nord Italia, in Piemonte e in Lombardia, e di qui rapidamente si diffuse ovunque. Oltre al calo demografico delle città e lo spopolamento delle campagne, l’epidemia incise negativamente sulla economia delle zone colpite. Passeggiando per il centro storico di Firenze – come quello di Pistoia e di altre 27 località della Toscana – è facile imbattersi in alcune decine di “finestrelle” suoi muri: non sono altro che dei varchi anti-contagio, utilizzati ai tempi per la vendita al dettaglio di cibo e vino.
Anche in questo caso le condizioni climatiche non furono tra le più favorevoli per la vigna e quindi la buona riuscita del vino. Infatti, i dati storici narrano che nel seicento si verificò una piccola era glaciale con la crescita dei giorni di gelo durante l’anno e dell’indice di piovosità.
Un secolo fa la spagnola. Molto drammatica fu l’influenza spagnola dell’inizio del secolo scorso. Si stima che un terzo della popolazione mondiale fu colpito dall’infezione durante la pandemia del 1918–1919. Quasi 50
milioni i morti. La crisi della domanda e dell’offerta, che si è registrata inevitabilmente, oggi si verificò anche all’epoca.
Ma diversamente da ciò che si sta verificando con il Covid-19, la spagnola decimò soprattutto individui in età adulta e con il sistema immunitario solido, quindi mise in ginocchio manodopera e consumatori, bloccando al tempo stesso l’offerta dei servizi, la produzione dei beni e il consumo di questi stessi beni.
Una curiosità. Sappiamo che la storia è costellata di quelle che oggi vengono comunemente definite fake news. Ebbene, durante la spagnola si diffuse la credenza che bere vino rosso e fumare potesse servire a difendersi dal virus. Non è un caso che la stessa bufala abbia fatto la sua ricomparsa sui nostri social durante il lockdown della scorsa primavera, accendendo gli animi di scienziati e enologi.
Un fattore positivo però c’è. Il Comitato Etico dell’ospedale dei Colli di Napoli, diretto dal professor Ettore Novellino, a maggio ha dato il via libera alla sperimentazione del Taurisolo, quale antiossidante per combattere il Covid 19. Nelle bucce di uve rosse e nelle vinacce di aglianico del comprensorio di Taurasi, infatti, sono state scoperte delle proprietà antiossidanti nei polifenoli.
Quale lezione trarre? Tutte le epidemie hanno avuto un impatto significativo sulla storia dell’umanità, sull’agricoltura e sul consumo. Questo sta succedendo anche adesso e la lezione che dovremo saper cogliere è una maggior responsabilità verso ciò che ci circonda. Perché ora più che mai siamo consapevoli dell’impossibilità di dominare la natura. Sono soprattutto i giovani a dover raccogliere questo insegnamento se vorranno vivere in una società più responsabile, instaurando un rapporto armonioso con il Creato.
L’esplodere dell’epidemia in Italia, così come in Europa, è coinciso con un momento delicato
per i vigneti: a marzo le viti erano appena germogliate e si doveva già pensare a come gestirle in funzione chiaramente della produzione. È proprio il caso di dire, parafrasando Voltaire, mentre gli uomini discutevano la natura agiva. Se da un lato scompiglio e preoccupazione invadevano gli animi della popolazione mondiale, dall’altro lato la natura realizzava il suo progetto. Cos’è questa se non la reale dimostrazione che la rinascita è già cominciata?
Domenico Strano