“È una casa fatta di erba, di aria aperta e di cielo”. Così a Milano due donne, Anna e Sarah, hanno dato vita a un progetto che si prefigge di favorire l’integrazione dei rifugiati, anche attraverso lo sport. La storia del “Fc Naga Har Multietnica” supera ormai i dieci anni di vita, ma resta un esempio per chi combatte pregiudizi e diritti civili, non solo a parole, ma nei fatti. In questa società, che oltre allo sport organizza corsi di fotografia, di musica e naturalmente di lingua italiana, i tanti ragazzi scappati dagli orrori di mondi impossibili, dall’Asia, all’Africa soprattutto, possono sperare di ricominciare una vita normale, praticare un’attività agonistica, provare a inserirsi in un contesto civile, socializzando con coetanei di tante altre parti del pianeta.
“Naga Har football club”, allenata da un trainer ivoriano, dà supporto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, ma in prima battuta mira soprattutto a far rifiorire nel rifugiato un minimo di fiducia verso il prossimo, dopo che molti di loro l’hanno persa completamente per strada, traditi dall’amico, segnalati dal vicino di casa, torturati solo per aver avuto un’idea diversa da quella del regime.
Arrivano dal Sudan, dalla Nigeria o dall’Iraq, ma anche dal Togo o dall’Iran. Giocando a pallone cercano di far sparire quelle ferite invisibili che ancora esistono in loro: l’associazione li sostiene anche sul fronte psicologico, perché non sono pochi quelli che sono perseguitati ancora ogni notte dai loro incubi. Sono quasi 700 gli stranieri che mediamente si appoggiano a questa struttura snella ma ormai rodata, fatta di volontari nelle varie discipline: sportive certo, ma accanto ad allenatori e preparatori ci si può trovare psicologi e terapeuti, musicisti e insegnanti di italiano. In questa dimensione una partita di calcio, lontana dai veleni delle nostre domeniche, può ancora rappresentare un momento di festa e spensieratezza, dove un assist o una rovesciata, un colpo di tacco o una parata spettacolare vengono vissuti con la gioia di chi ha bisogno innanzitutto di ritrovare se stesso.
Ispirata da un’idea di Italo Siena, medico amico di Gino Strada, e proseguita dalle due donne, questa associazione è abituata da anni a lottare contro tutto e contro tutti, a strappare molti giovani dalle grinfie di spacciatori senza scrupoli, che vorrebbero reclutare a basso costo i tanti disperati vittime e perseguitati dei regimi dittatoriali. Non solo traumi e fratture fisiche si diceva, ma soprattutto ferite interiori, cicatrici che fanno fatica a rimarginarsi ma che qui un pugno di volontari, anche seguendo un pallone che rotola, una rete da segnare o un tiro da parare, cercano di rendere più sopportabili. Anche questo è Natale…
Leo Gabbi