Biagio Fichera è uno storico, poeta, pittore, fotografo, musicista. Insomma un’intellettuale poliedrico e, come ogni intellettuale che si rispetti ha, ancora, dopo sessant’anni di “attività”, l’energia e la vis di un ragazzino.
Ci accoglie nel suo studio, anzi, come lo chiama lui nella sua tana. Qui è un accatastarsi di libri, fotografie, piccole statue, che, se non fosse per una finestra laterale che permette alla luce di penetrare lo studio, si finirebbe, irrimediabilmente, per incespicare in qualche scartoffia.
Perché, per far entrare così tanti libri, in uno spazio così modesto, bisogna veramente amare la letteratura. Ed è così Biagio Fichera, come dice lui stesso “Io vivo nel mio studio, alcuni potrebbero chiamarla tana. Poco importa, così solo posso capire il mondo in cui vivo, senza perdere tempo e annoiarmi con le piccolezze e le brutture quotidiane”.
Non è da pensare, però, Biagio Fichera come l’intellettuale romantico che pretende di conoscere lo scibile umano, rimanendo chiuso nella sua torre d’avorio, alla Friedrich Holderlin, mezzo matto ed avulso dalla realtà.
Il nostro storico vive il suo studio come un rifugio. Ma anche come un osservatorio privilegiato che, gli permette di guardare il mondo nella sua essenza più vera, senza scendere a compromessi con le bruttezze e le contraddizioni della realtà.
Nel suo volto è stagliato il sorriso beffardo di chi sa amare la vita, di chi ama la bellezza della vita. Non si lambicca il cervello a capire l’oscuro mistero dell’esistenza, così che le risposte superino in banalità le domande. Ma ama quel mistero che è la bellezza intrinseca della vita.
Lo potremmo definire un Orazio contemporaneo, che solo nel suo piccolo locus amoenus riesce a dare il meglio di sé. Del poeta lucano ha sicuramente l’autostima e il senso dell’ironia. Con la sua voce squillante e con quel guizzo negli occhi di chi sa tanto, perché Biagio Fichera ha ben ottantasei anni, ma, soprattutto di chi pensa tanto.
Biagio Fichera lei è sia storico, musicista, fotografo, artista, verrebbe da dire chi più ne ha più ne metta. E’ proprio questo non farsi bastare mai niente, a tenerla così lucido a ben ottantasei anni?
La passione è fondamentale. Chi fa il mio mestiere, se così possiamo chiamarlo, senza passione finisce con l’essere un noioso impiegato. Voglio dire farà il suo lavoro sicuramente bene, ma non apporterà nulla di nuovo, di originale. Io a diciannove anni scrivevo per un giornale di Roma, in seguito ho lavorato con la Rai, scrivendo il testo della colonna sonora de “La peccatrice”. Poi mi sono trasferito a Parigi, dove ho lavorato in un’emittente televisiva francese. E poi, sono ritornato ad Acireale, ed è proprio nella città che mi ha visto nascere, che si è concretizzata la passione per la storia acese. In particolar modo, per l’Opera dei pupi.
A proposito di tradizione acese e di pupi, qualche giorno fa si è conclusa, ad Acireale, la terza edizione del festival dell’Opera dei pupi. Lei che conosce bene la storia delle marionette siciliane, e che ha condotto studi sul puparo acese Emanuele Macrì, sa che è stato intitolato a quest’ultimo lo storico teatro di via Alessi?
Quello che ho fatto io per la memoria di Emanuele Macrì e per il teatro che, adesso, porta il suo nome, in questa città non l’ha fatto nessuno.
Si spieghi meglio..
Intitolare il teatro dell’Opera dei pupi a Emanuele Macrì, anzi al cav. Isidoro Emanuele Macrì, era un atto dovuto. Già alcuni anni fa a Macrì, grazie anche al mio interessamento, fu intitolata una via. Emanuele Macrì, il più piccolo della famiglia, era nato nel 1906 a Messina. Dopo il terremoto del 1908, fu portato ad Acireale dal maestro puparo Mariano Pennisi. Da lì in poi, rimase ad Acireale, si sposò e, la moglie contribuì all’allestimento dei vestiti delle marionette del marito.
Conoscevo Emanuele Macrì sin dai primi anni cinquanta. E per lui l’ascesa iniziò proprio in quel periodo, effettuando diverse tournée, sia in Italia che all’estero. Fu in Belgio, alla corte del re Baldovino e della regina consorte; portò i suoi spettacoli nei Paesi Bassi, in Germania, in Australia e, partecipò a diverse riprese televisive. Gli fu dedicato un film “Turi e paladini”.
Tra le tante personalità, ad Acireale, per conoscere ed assistere all’Opera dei pupi di Emanuele Macrì, vi furono: l’onorevole Giulio Andreotti che, nel 1945 appose la sua firma nel registro del teatro, il premio nobel Salvatore Quasimodo, il grande attore Turi Ferro, il pittore Salvatore Fiume, la nipote di Garibaldi, Annita Italia Garibaldi e, volendo, potremo continuare fino a domattina. Per non dire dei turisti che, per circa un ventennio, dagli anni cinquanta agli anni settanta, a flotte, assistevano agli spettacoli del maestro.
Emanuele Macrì era un genio, e come tutti i geni era un uomo solitario, schivo, suscettibile, perché autenticamente sensibile. I suoi unici amici erano le sue creature, quelle che lui, con la sua voce, faceva rivivere in ogni sua rappresentazione. C’era un episodio, in particolare, che lo emozionava più degli altri, l’episodio della morte di Orlando di Roncisvalle. Rievocando le gesta del suo paladino, finiva col commuoversi, come accadde spesse volte nelle sue tournée romane. Tant’è, che nella scena della morte di Orlando, senza volerlo, continuava a prestare la sua voce al paladino. Così forte era l’immedesimazione, e il manovratore lo avvertiva a chiudere e, lui, fra il serio e il faceto, ribatteva “Ma che è colpa mia, se stasera Orlando non vuole morire”.
Amava talmente le sue creature che, sovente, non rincasava e rimaneva a dormire sotto il palco del suo teatro. Alla morte del maestro, ahimè, tutto andò in malora. I familiari cedettero, per pochi milioni, ad uno stretto collaboratore del padre quasi tutto quello che si trovava nel teatro. Poi, costui fondò la cooperativa “Emanuele Macrì”, portando gli spettacoli in giro per l’Europa.
Successivamente, egli pensò bene di vendere parte di quel patrimonio, proponendolo alla Regione siciliana: soltanto ottantanove scene e sipari per alcuni milioni di lire, novecentomilioni, a onor del vero; il prezzo dei pupi è rimasto anonimo. L’unico nipote Emanuele, figlio di Rosaria, una delle due figlie, in un certo periodo, volle intraprendere la passione del nonno, ma vuoi per mancanza di ispirazione o per vicissitudini personali, se ne ebbe un nulla di fatto.
Bisogna ammettere che il comune di Acireale è stato fondamentale per il restauro e la memoria del teatro…
Il comune di Acireale ha voluto la sua vetrina. Per carità ha restaurato e promosso la storia dell’Opera, ma ciò non ha nulla a che fare con l’amore per la cultura e per la storia. Lo sapete che se non fosse stato per il sottoscritto, alcuni cimeli del teatro, oggi, sarebbero in una discarica?
Racconti cos’è successo, è difficile pensare che dei restauratori o, comunque degli addetti ai lavori, abbiano fatto ciò che lei dice..
E invece, è proprio così. Nel 1998, in occasione del primo restauro del teatro di via Alessi, salvai alcune “cose di poco conto” che avevano gettato in mezzo ai calcinacci, sapendo che il giorno dopo avrebbero portato via tutto in un’anonima discarica.
Gli oggetti in questione erano: lo stemma a forma di scudo di Mariano Pennisi, posto sopra l’entrata del teatro, e il piccolo crocefisso, risalente ai primi del novecento, sempre del maestro Pennisi e poi di Macrì. E il maestro Macrì, ogni sera, prima della rappresentazione, era solito crociarsi. Io ho pure scritto un libro su Emanuele Macrì che ho fatto avere al comune di Acireale: attendo ancora risposta.
Strano, un pozzo di cultura come Biagio Fichera che viene ignorato..
Nel mio libro ho osato insinuare che Emanuele Macrì fosse il figlio illegittimo di Don Mariano Pennisi. Il maestro Pennisi, la domenica, era solito andare in bicicletta fino a Messina, e si ristorava presso la trattoria della signora Maria, madre di Emanuele, del quale porta il cognome; capite ciò che dico?
E non vi sembra singolare il fatto che Emanuele non seppe mai dell’esistenza, ad Acireale, di suo fratello Salvatore Mariano, e delle tre sorelle: Lia, Antonietta e Maria. Che vennero portati dagli uomini di una nave russa, nei due migliori collegi di Acireale: il “Santonoceto” e il collegio “San Benedetto.” Il destino è davvero geniale a volte, lo sapete voi che, il giorno della morte di Mariano Pennisi coincise con il matrimonio del suo pupillo; quasi un passaggio di testimone….
Per ritornare al libro, perché non dovrebbero prendere in considerazione un libro in cui si dice che Emanuele Macrì era figlio illegittimo, pure Eduardo De Filippo lo era, a proposito di genialità del destino?
Guardate, il bigottismo e, la paura di volere “cambiare” la storia, non permettono che la ricerca venga condotta, o che venga condotta male. L’ignoranza non consiste nel non sapere, ma nell’avere paura di sapere. Non sempre è tutto bene ciò che finisce bene. Certe cose sono ancora tabù. L’opinione pubblica è sensibile a certi argomenti.
Vorrebbe dire che essere orfano a causa di un terremoto non urta la sensibilità pubblica, mentre essere figlio illegittimo è un peccato imperdonabile?
Certe cose non fa piacere, che si vengano a sapere. La storia ci insegna che i più grandi geni nascono dal peccato. Sapete cosa distingue un bravo storico da uno mediocre?
La competenza e lo studio continuo?
La schiena dritta soprattutto. Chi vuole intendere intenda. Chi fa per mestiere il ruffiano non può allo stesso tempo definirsi storico. Non basta cercare la verità, bisogna saperla carpire. Le buone intenzioni degli incompetenti sono peggiori delle cattive intenzioni. Si finisce per trasformare la storia in un racconto asettico e banale. Nella mia tana, come potete ben vedere, si può trovare di tutto, qui è sempre aperto, è sufficiente un colpo di citofono.
Giosuè Consoli