Dopo avere accolto il parere del Consiglio superiore di sanità pubblicato lo scorso 4 agosto, il 13 agosto il ministero della Salute ha emanato le nuove linee di indirizzo per l’aborto farmacologico indotto con la pillola Ru486.
Due le novità rispetto alle precedenti norme del 2010: la somministrazione del farmaco abortivo in day hospital – che annulla l’obbligo di ricovero dall’assunzione della pillola fino alla conclusione della procedura abortiva – e l’estensione del limite di utilizzo della Ru486 dalla settima alla nona settimana di gestazione.
Non usa mezzi termini Emanuela Lulli, ginecologa e medico di medicina generale a Pesaro, nonché consigliere nazionale di Scienza & Vita: “Dal mio osservatorio di ginecologa e medico di medicina generale posso affermare che queste linee guida sono prive di scientificità e nemiche delle donne.
Temo siano frutto di un lavoro a tavolino da parte di medici, biologi a farmacologi ‘da salotto’ che non hanno alcuna idea di cosa significhi stare accanto alle donne”.
Che cosa intende dire?
Anzitutto queste linee guida vanno oltre la 194, legge a mio avviso cattiva, ma che stabilisce che l’interruzione volontaria di gravidanza debba avvenire in ambito ospedaliero. Oltre a questo, che è già grave, mi colpisce
l’assoluta lontananza dalla donna e dal suo dolore.
Una realtà di cui probabilmente non si accorgono i colleghi non obiettori, che dopo avere praticato l’aborto chirurgico quelle donne spesso non le vedono più, mentre noi, medici di medicina generale, le seguiamo anche successivamente monitorandone il dolore negli anni. Se l’Ivg chirurgica fa male al piccolo e alla madre, queste nuove linee guida mietono un’altra vittima minando dal punto di vista morale, culturale e sanitario l’idea e la percezione della gravità dell’aborto, “strumento sanitario” che si tende a rimuovere dagli ospedali e pertanto a “cancellare”.
Si tratta di una questione di risparmio sulla spesa sanitaria?
Non solo. Se da un lato c’è un discorso di taglio di costi assistenziali legati al ricovero e all’intervento, dall’altro c’è la “fatica” di molti ginecologi chirurghi, stanchi del peso psicologico, emotivo e morale che comporta il “fare a pezzi” una nuova vita. Il metodo Karman impiegato è di fatto un aspiratore che risucchia il contenuto dell’utero. A nove settimane la morfogenesi del piccolo è completata: il feto ha un cuore che batte da diverse settimane, ha la testa, il tronco, tutti gli arti. È molto crudo dirlo, ma spesso non esce intero, ma a pezzettini… Non tutti gli operatori sanitari riescono a uscire interiormente indenni da questa procedura. Ne conosco diversi che, magari dopo anni, hanno dichiarato di non essere emotivamente più in grado di proseguire.
La Ru486 viene presentata come “sicura”, eppure le linee guida stabiliscono che debbano essere escluse dalla sua somministrazione pazienti molto ansiose, con una bassa soglia di tolleranza del dolore e/o impossibilitate a raggiungere il pronto soccorso ostetrico-ginecologico entro un’ora. Questo non la dice lunga sulla pericolosità della procedura?
Sì. Inoltre non è prevedibile la tempistica reale dell’aborto. La donna a casa deve trascorrere ore e giorni verificando l’arrivo di contrazioni, sanguinamento, espulsione… È agghiacciante. Tenga presente che, come con tutti i farmaci, la risposta individuale è differenziata: questa è una legge fondamentale della farmacologia. A maggior ragione per una donna a 8-9 settimane di gestazione, con un bambino, un utero e una placenta mano a mano sempre più grandi. Non esiste una tempistica standard, inoltre tutte le azioni uterine sono collegate all’ipofisi; pertanto gioca un ruolo importante anche il fattore psicologico. Queste donne sono di fatto lasciate sole senza sapere esattamente che cosa può loro accadere, in una procedura che, come dimostrato dalla scienza e dalla testimonianza di alcune, può durare anche diversi giorni. In nessun’altra branca della medicina il paziente viene lasciato così solo a gestire gli effetti collaterali di un farmaco importante. Ma c’è un altro aspetto che mi preoccupa.
Quale?
L’intervento chirurgico provoca la morte del bambino e allo stesso tempo lo espelle, ma la donna vive questo evento in anestesia senza vedere nulla. Invece nell’aborto farmacologico questo avviene in due fasi distinte: il mifepristone, un ormone antiprogestinico, uccide il feto; la prostaglandina, da assumere dopo circa 48 ore, induce le contrazioni uterine necessarie alla sua espulsione. Se questo viene fatto a nove settimane, quando l’organogenesi è terminata, la donna potrebbe vivere lo strazio di trovarsi di fronte a un piccolo di 2 cm, completamente formato, eliminato per intero o a pezzi. Un calvario tremendo. In questi anni ho seguito molte donne che hanno deciso di interrompere volontariamente una gravidanza; anche a distanza di 20 anni vedo profonda sofferenza e difficoltà a perdonarsi. Per alcune di loro neppure anni e anni di psicoterapia bastano a rimarginare la ferita che si portano dentro. Ma questa procedura rende tutto ancora più straziante. Come si fa a non rendersene conto? Per me queste nuove linee guida sono fortemente ideologiche e prive di scientificità e di empatia nei confronti della donna. Sono strumento di morte di un piccolo ma, in parte, anche della sua mamma.
Ancora una volta la 194 viene applicata solo in parte.
Gli articoli 1, 2 e 5 sul sostegno e la tutela della maternità e i possibili aiuti alla donna per rimuovere le cause che potrebbero indurla all’interruzione volontaria di gravidanza vengono per l’ennesima volta completamente disattesi. La 194, oltre ad aver provocato più di 6 milioni di aborti, ha determinato un cambiamento di mentalità banalizzando un atto gravissimo come la soppressione di una nuova vita. Ora si prosegue in questa direzione, alzando ulteriormente l’asticella in una logica di risparmio e di rimozione, ma non è questo lo spirito della 194. Siamo di fronte ad una sconfitta dell’umanità.
Come tentare di arginare questa deriva?
La contraccezione non è il sistema migliore. Il sistema è fallito e oggi si vendono in Italia quasi più pillole del giorno dopo che non la pillola estro-progestinica. La donna va educata nella conoscenza di sé, dei suoi tempi di fertilità e di approccio alla maternità. Ma servono, più in generale, un’educazione al valore della vita, in ogni sua fase, e aiuti concreti per chi decide di portare avanti una gravidanza. I nostri legislatori dovrebbero promuovere e incentivare la natalità. Oggi invece viviamo in un contesto politico-economico-sociale che sembra colpevolizzare chi decide di avere figli.
Giovanna Pasqualin Traversa