Tino Caspanello è un importante attore, regista e drammaturgo dei nostri giorni. Nato a Pagliara – in provincia di Messina -, nel 1983 si diploma in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Perugia. Tornato nuovamente in Sicilia, collabora come scenografo con varie compagnie messinesi. Nel 1993 fonda la Compagnia “Teatro Pubblico Incanto”, con la quale ha prodotto numerosi spettacoli.
Lo abbiamo incontrato per conoscerlo meglio, e sapere dei suoi nuovi progetti.
– Ci racconti un po’ di te, della tua vita, della passione per il teatro?
“Sarebbe un racconto forse un po’ troppo lungo, quindi cercherò di essere sintetico. Sono nato a Pagliara, un piccolo comune della provincia di Messina. A circa sedici anni ho cominciato per gioco ad avvicinarmi al teatro, ma già in famiglia c’erano mio padre e un cugino che seminavano curiosità per questa “cosa”. Dopo il liceo, ho studiato Scenografia a Perugia, ho cominciato a lavorare come scenografo con alcune compagnie, ma già capivo che non mi sarei fermato a quello, sentivo altre istanze crescere dentro di me, domande, riflessioni, dubbi ai quali avrei potuto dare una migliore definizione confrontandomi con il linguaggio della scena in modo totale. Nascono così le prime regie, tentativi di dare forma a un’idea, di fare luce sulla condizione esistenziale dell’uomo, sui piccoli e grandi drammi che ancora oggi sono materia di indagine delle arti in generale. È all’interno della Compagnia che, soprattutto, nascono i miei primi testi e tutta la mia attività di drammaturgo”.
– La tua esperienza con la compagnia “Teatro Pubblico Incanto”, quando e come nasce?
“Sono il fondatore della compagnia “Teatro Pubblico Incanto”, quindi c’è una compenetrazione profonda tra il mio lavoro e quello della Compagnia con la quale ho prodotto dal 1993, anno della sua nascita, circa 34 spettacoli. È un impegno quotidiano che richiede pazienza, attesa, sofferenza a volte, ma sono gli aspetti di un’esperienza che nel tempo ha portato bei frutti, come riconoscimenti nazionali e internazionali: il Premio Riccione per “Mari”, il premio dell’Associazione Nazionale dei Critici, l’ospitalità all’Università di Clermont Ferrand e all’Ecole Normale Superieure di Lione, e poi in Polonia e all’Università di Hong Kong“.
– Cosa significa per te scrivere, cosa o chi ti ispira?
“Non so se è possibile dare una definizione esaustiva del significato della scrittura. È una esigenza, lo dicono tutti, una esigenza che nasce in qualche luogo dell’anima e che preme per avere una forma, una realizzazione. L’ispirazione è una delle cose più incontrollabili, so che ad un tratto arriva, improvvisa, inaspettata, suscitata da un gesto, da un colore, da un suono; il problema nasce quando bisogna trasportarla nella fase successiva, perché bisogna sapere tenere acceso quel fuoco che l’ha attivata e controllare continuamente i risultati. Scrivo praticamente tutti i giorni, è un esercizio continuo, come per un atleta o un musicista, e nella scrittura cerco di trasferire continuamente la capacità di quel fuoco. Ovviamente, la possibilità di dare vita al testo, grazie alla mia Compagnia, è una fortuna; più problematico è riuscire ad avere una riconoscibilità in un panorama più ampio, ma questa è arrivata grazie anche alle pubblicazioni, tre volumi in Italia con Editoria & Spettacolo, altri testi pubblicati in Francia o tradotti in polacco, inglese, greco e cinese”.
– Il teatro ieri ed oggi: cosa è cambiato? Quale il ruolo principale dell’attore secondo le necessità della società odierna?
“È cambiato molto sulle scene nazionali e internazionali nel corso del 1900 e anche in questi anni. Il cambiamento è continuo, a volte netto, improvviso, altre volte più lento. Sono cambiati i linguaggi, il modo di fare regia, di avvicinarsi a un testo; in realtà è questo il senso della ricerca: capire dove si può andare, quali territori esplorare, come farlo e con quali strumenti, prediligendo ora la parola, ora il gesto o negando questo e quella.
Sul ruolo dell’attore potremmo aprire un dibattito interminabile, perché si dovrebbe affrontare, contemporaneamente, la questione del ruolo dell’artista nella società. Io credo che chi opera con i linguaggi dell’Arte abbia soprattutto una possibilità, che poi è una competenza, cioè quella di riuscire a gettare lo sguardo lì dove non siamo abituati a guardare o non vogliamo guardare. È allo stesso tempo la felicità di una scoperta e il dolore per una più grande solitudine”.
– Quello dell’incomunicabilità è il tema presente in “Mari”; l’uso del dialetto diviene per i personaggi il tentativo di comunicazione. Le distanze tra marito e moglie riescono effettivamente ad accorciarsi?
“Il tema dell’incomunicabilità è presente in moltissima drammaturgia, forse in tutta la letteratura teatrale; oggi forse diventa il nocciolo principale attorno al quale si concentra molta scrittura nel tentativo di dire quello che la parola non riesce a dire, non riesce più a dire. In “Mari” questa riflessione agisce su due fronti, da un lato il dato linguistico generale, la questione della parola in sé in quanto veicolo di significati spesso abusati o svuotati di senso, dall’altro la scelta della lingua, il siciliano qui, perché nelle sue assenze celebra la capacità di dire attraverso il gesto e il silenzio.
Ovviamente i due personaggi, uomo e donna – marito e moglie, sono un pretesto, sono due strumenti che devono accordarsi non tanto per accorciare le distanze quanto per riuscire a suonare insieme”.
– La tua è una drammaturgia e una lingua del “non luogo”. Potresti approfondire questo punto?
“Il teatro è un non luogo per eccellenza, e nel suo non essere luogo ha la capacità di essere tutti i luoghi; funziona così anche con il dato temporale: il tempo teatrale non ha quadranti, non si dipana così come detta la logica astronomica, ma è, contemporaneamente, il tempo e nessun tempo.
Credo che il teatro, la scrittura, la mia scrittura, nascano in un luogo intimo che non ha definizione, confini, non ha identità, ma è un contenitore di possibilità. Nella fase successiva, quando la forma comincia a manifestarsi, allora è necessario scegliere anche quella in cui avverrà l’azione, in cui la parola potrà fare sentire il suo suono; punto allora l’attenzione verso spazi che possano essere metafora di quell’altro, mai conclusi, mai definiti, ma pronti al cambiamento così come la parola richiede”.
– Non deve esserci distanza tra attore e spettatore, il pubblico deve attivamente partecipare alla scena. Come coinvolgerlo, quale il ruolo del dialetto a tal proposito?
“La partecipazione attiva del pubblico è nella stessa natura del Teatro, partecipazione emotivamente attiva, criticamente attiva. Non so come si possa creare distanza tra spettatore e pubblico, a meno che non ci si isoli in forme così autoreferenziali da impedire al pubblico l’accesso a ogni segno della scena.
La scelta di un linguaggio, parola, corpo, materia, luce, risponde proprio alla nostra volontà e alla nostra capacità di coinvolgimento del pubblico. Sono, appunto, scelte e, in quest’ottica, credo vada sempre misurato il grado di percezione e di comprensione. Poi c’è chi sceglie di parlare chiaro, chi di parlare oscuro. That’s the problem!”
– Stai già lavorando ad un nuovo progetto?
“Sto lavorando a una nuova produzione che sarà in scena a Maggio a Messina, al Teatro dei tre mestieri, e alla pubblicazione del quarto volume dei miei testi”.
Graziella De Maria