Abbiamo chiesto un’intervista a Valentina Bellelli, già ricercatrice e oggi assistente top manager che ha avuto la possibilità di sperimentare diverse esperienze universitarie e lavorative sia in Italia che all’estero, scegliendo di tornare in Sicilia. Per lei, paragonando le sue esperienze, il nostro paese ha ancora molto da imparare. Ma conosciamola meglio.
Intervista / Valentina Bellelli, un’analisi tra la sua esperienza all’estero e in Italia
Lavorare con l’estero è molto più facile – sottolinea subito. – Si deve essere puntuali e precisi, ma è molto più semplice perché è tutto ordinato, efficace ed efficiente. In Italia è tutto approssimativo. Gli italiani hanno grandi capacità di problem solving, ma non di programmazione e di organizzazione del lavoro, quindi andiamo sempre di rincorsa a risolvere problemi creati in realtà dalla disorganizzazione. Per non parlare della Sicilia, dove ovviamente il livello di avanzamento informatico di tanti interlocutori è veramente scadente. Spesso qui in Italia mi ritrovo a che fare con persone che hanno un’elasticità nella capacità di risolvere i problemi davvero limitata. Mentre all’estero, quando parli con una persona di quarant’anni che ha dovuto cambiare città, cambiare lavoro e cambiare casa almeno dieci volte, un problema si risolve in un terzo del tempo.
Qual è stato il suo percorso universitario? Com’è iniziato il suo percorso lavorativo?
Venendo da una famiglia di medici, l’idea iniziale era quella di fare medicina ma, a causa dei soliti conflitti paterni e della voglia di evadere, in realtà mi sono indirizzata su tutt’altro ambito. Mi sono iscritta in storia dell’arte e sono andata a studiare a Siena. Lì mi sono laureata con 110 e lode, ho frequentato un master in economia e gestione a Roma e infine sono tornata in Sicilia per uno stage all’università di Catania, dove però gli spazi erano parecchio risicati.
Dunque nonostante si trattasse di uno stage a progetto (Interreg. Italia-Malta) sulla gestione al valore nazionale del patrimonio culturale, in realtà le possibilità di rimanere non c’erano. Quindi tornai a Roma, dove presi una seconda laurea in economia e gestione dei beni culturali e come tesi di laurea scelsi una tesi sperimentale su un modello di gestione del patrimonio culturale che si chiama “Ecomuseo”. Puntando ad applicare questo modello di “Ecomuseo” urbano alla città di Bogotà, partì proprio per la capitale della Colombia.
Intervista / Valentina Bellelli, l’esperienza in Colombia
La sorpresa è stata quando mi sono trovata a confrontarmi con professori e persone che lavoravano nel Ministero dei beni culturali di Bogotà. A differenza di quanto accade in Italia, erano tutti molto giovani e pronti a mettersi in gioco. Si sono molto stupiti del fatto che a 30 anni fossi ancora disoccupata con il mio curriculum e mi hanno chiesto di rimanere lì. Ho ricevuto due proposte, ma non mi sono sentita di rimanere per questioni personali. Alla fine, il Ministero colombiano ha chiesto a quello italiano di trasformare la mia application in un progetto reale ma, nonostante l’impegno del Ministero colombiano nel finanziare il progetto, il Ministero italiano non ha acconsentito.
Come mai?
Il Ministero italiano ha detto che non facevano questo tipo di progetti, ma solo scambi culturali. Dunque il progetto è sfumato solo perché l’Italia non ha accettato. È stata una delusione e per questo ho lasciato delusa il mondo dell’università e della ricerca. Ma nonostante questo non ho avuto difficoltà a trovare lavoro a Roma, incominciando a lavorare nel mondo del marketing strategico.
Intervista / Valentina Bellelli, la decisione di andare a lavorare all’estero
Una volta ultimata la tesi, mi sono rivolta ai professori che avevo conosciuto durante il master, per creare una sinergia. È stata una questione di opportunità. Opportunità che alla fine non si è ulteriormente concretizzata per colpa dell’Italia. In quel momento non me la sono sentita di lasciare l’Italia, nonostante l’estero mi abbia accolta meglio.
Perché non era rimasta in Sicilia?
La decisione di andare fuori dalla Sicilia, a prescindere dalla “pazzia” dei 19 anni, in realtà è stata sempre la mia voglia di conoscere altre realtà per farle mie e poi magari ritornare. Non ho mai pensato di iniziare il mio percorso di studi e lavorativo in un luogo e finirlo lì. Devo dire che lo trovo limitante in generale. Infatti i consigli che do a mio fratello, che è all’ultimo anno di medicina e che spero che magari anche le mie figlie ascolteranno, è quello di cercare di guardare più mondi possibili, per poi costruirsi il proprio.
Perché ha deciso di ritornare nella nostra isola?
È stato un ritorno per amore. Durante la mia permanenza a Roma, il caso ha voluto che mi rincontrassi con quello fu un ragazzino di mia vecchia conoscenza e alla fine mi sono trasferita a Palermo. Qui, mi sono dedicata al progetto per cui ero partita per la Colombia. Ho collaborato ad un progetto bellissimo, chiamato “Ecomuseo del mare”, finanziato da Fondazione con il Sud. Dopo un po’ di tempo, abbiamo deciso di trasferirci a Catania. Ero incinta e avevo già una bimba piccola. Inserirmi nell’ambito lavorativo è stato molto difficile ma, nonostante ciò, sono riuscita a ricominciare. Inoltre, dal 2017 al 2020, sono stata la responsabile del gruppo Refugees Welcome di Catania.
Di cosa si tratta?
“Refugees Welcome” si occupa dell’accoglienza in famiglia dei rifugiati soprattutto neo maggiorenni, che vengono espulsi dalle comunità per minori. L’associazione organizza dei colloqui ai ragazzi e alle famiglie che si rendono disponibili all’accoglienza e crea questi abbinamenti, da cui poi nasce una convivenza che deve durare dai 6 ai 12 mesi. La mia prima accoglienza è stata quella di Alpha (nella foto accanto, ndr). Un ragazzo di 18 anni proveniente dal Gambia, con cui si è creato un bellissimo rapporto anche di amicizia. È stato accolto da nonna Concetta, una signora di 85 anni che l’ha aiutato ad inserirsi al 100% nella società catanese. Un’esperienza bellissima, che ha anche permesso l’unione di due culture e di due mondi.
Intervista / Valentina Bellelli: l’esperienza a “Citrusmade”
Nel 2020 ho avuto la possibilità di fare un colloquio con questa azienda. La fortuna è stata di incontrare una persona che nonostante i 45 anni di età e una carriera già avviata ha deciso comunque di rimettersi in gioco. Ho incontrato un manager capace di guardare oltre la laurea. Ha prestato attenzione alle mie capacità e non si è limitato. Ha visto in me la curiosità di poter fare diversi collegamenti tra le diverse cose che si incontrano nella vita come nel lavoro e di collegarle tra di loro. Da due anni lavoro per questa azienda, mi occupo di export e per la prima volta nella mia vita ho un contratto regolare a tempo indeterminato. Il mio primo lavoro con contratto regolare era stato quello finanziato dalla Fondazione per il Sud, ma il mio primo lavoro con contratto stabile è arrivato con l’attuale azienda.
Ha mai avuto ripensamenti?
Sicuramente il momento della scelta del corso di laurea è un momento molto delicato. In generale trovo che pressioni esterne, informazioni scolastiche errate e condizionamenti famigliari e/o sociali possano portare a delle scelte poco focalizzate. Probabilmente oggi tornando indietro non sceglierei storia dell’arte.
Cosa sceglierebbe?
Forse sociologia o antropologia.
Hai mai pensato di ritornare sui i libri?
Attualmente ho già due lauree: Economia e storia dell’arte. Quindi più di questo? (ride). Se non avessi figli, sì. Probabilmente mi sarei iscritta anche in medicina, chissà. Avrei trovato il modo di fare comunque psichiatria o forse psicologia. Però, per il mio modo di studiare, con due figlie è veramente impossibile.
Da un punto di vista generale, quali sono le sue considerazioni generali riguardo la sua esperienza all’estero e in Italia?
Sicuramente quello che ho notato è che all’estero la media di età professionale è molto più bassa. Trovi tutte persone giovani che stanno fra i 30/40 o massimo 45 e questo ti dà una facilità e una velocità nel fare le cose che qui, spesso non c’è. Il 70% dei nostri clienti è estero e il restante 30% italiano. È tutto un altro mondo. Qui con un curriculum pazzesco non sei nessuno e probabilmente continuerai a non esserlo per diversi anni, finché il professore di turno non ti dirà: “ecco adesso è il tuo turno“. All’estero vieni valutata per le tue capacità e per il tuo curriculum. Poi puoi avere una botta di culo, come me, di trovare un amministratore delegato illuminato che dice: “Ok, io faccio il colloquio a queste persone e le valuto per quello che io vedo“.
C’è anche da dire, però che la stessa persona che due anni fa mi ha fatto il colloquio è da due mesi che fa colloqui alla ricerca di un’altra figura in un altro ambito e sta facendo fatica. Incontra persone che non si fanno domande, prive di curiosità. Quindi quello che dico io è che bisogna essere curiosi, non fermarsi a quello che ci dicono di studiare e a quello che ci dicono di fare. Bisognerebbe guardare il mondo dello studio, come quando si è bambini. Dovremmo cercare di trovare cose che ci fanno stupire e non per forza fare le cose che ci vengono dette per raggiungere quel singolo obbiettivo.
Rebecca Charamah