Interviste / Giacomo Poretti e il suo spettacolo “Fare un’anima”: “L’anima c’è, ma va scoperta e va creduta”

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Lo conosciamo come spesso lui si presenta: “Sono il 33% del Trio”. Il trio è quello composto da Aldo, Giovanni e Giacomo; lui è Giacomo Poretti, classe 1956, infanzia trascorsa in paese (Villa Cortese), vita adulta a Milano. È lui che darà vita, martedì 17 luglio, all’evento clou della settimana di Avvenire e Il Popolo. Lo fa portando in scena lo spettacolo “Fare un’anima”.
Come si fa un’anima?
Non lo so, è difficilissimo, specie di questi tempi, perché è una modalità e quindi una parola fuori moda. Anima: suona antica, roba da soffitta. La soffitta delle parole è il dizionario e, quando finiscono lì, sono belle che morte. Lo spettacolo nasce proprio da questa considerazione, dalla comprensione di questo non attuale interesse. Riflette sulla scarsa attitudine del mondo d’oggi all’anima.
Da cosa nasce uno spettacolo così?
Nasce da quello che un sacerdote dice a un papà che ha appena avuto un bambino: “Bravi, avete fatto un corpo, adesso dovete fare un’anima”. Sembrava una frase insensata o relegata alla dimensione religiosa e, invece, ha lavorato dentro.
Il papà era lei?
Sì, ero io. Ma credo che la frase sia stata rivolta anche ad altri.
L’anima è da riscoprire o da costruire?
L’anima c’è già. Va scoperta e va creduta. A noi capita qualcosa di straordinario e terribile: il percepire qualcosa, una presenza. Il sentirla e non vederla, perché è una presenza non corporea. E per di più questo nostro sentire è da confermare sempre, per quella bellissima e tragica libertà di scegliere che ci è stata data.
Ma senza il don Giancarlo dell’oratorio sarebbe mai arrivato ad uno spettacolo sull’anima?
Certo, il don Giancarlo del mio oratorio di Villa Cortese, della mia infanzia, quello che da solo faceva da tata a tutti i ragazzi del paese ogni pomeriggio… (ne parla nel suo primo romanzo “Alto come un vaso di geranei” ndr.). É stato una figura importante. Ma poi anche i miei genitori, la suora dell’asilo, i nonni… Gli altri contano: ci sollecitano, ci provocano, ci dicono qualcosa che magari al momento resta lì, ma non è perso, rimane dentro.
Lei ha fatto anche da testimonial per l’oratorio. Ci tiene proprio.
L’ho fatto un paio di anni fa. E l’ho fatto con molta contentezza. Ma anche con la consapevolezza che non ha più la funzione di occuparsi in toto dei ragazzi come capitava con noi. Il mondo cambia e cambiano le esigenze. Però ritengo importante che ci sia.
Guardando il suo percorso, sembra che da qualche tempo la dimensione del mistero, della fede, sia più presente. È più presente o c’è più coraggio nel manifestarla?
Emerge adesso perché c’è adesso, corrisponde al mio percorso personale. È una dimensione a cui magari capita di dare poca importanza, poi qualcosa accade. E dopo, manifestarla non è un atto di coraggio. Senti che è una cosa talmente bella che hai voglia di dirlo. Un po’ come per chi fa una scoperta e lo racconta al mondo.
È a Bibione per la festa dell’Avvenire. Che rapporto c’è?
Ho cominciato a scrivere per La Stampa. Capita così: vieni letto, poi ci si conosce e ci si frequenta. Piano piano il legame è andato saldandosi con il direttore Marco Tarquinio e con Francesco Ognibene.
Ho letto che collabora con l’Ufficio delle Comunicazioni sociali della Curia di Milano.
Diciamo che saltuariamente collaboro, quando il cardinale o il vescovo hanno ritenuto di averne bisogno.

Poretti assieme ai colleghi del trio Giovanni Storti e Aldo Baglio

Come è iniziato e cosa ha fatto?
È partito tutto dal cardinale Scola che ha voluto creare due grandi eventi in piazza Duomo, eventi da 40/50 mila persone. Uno per Expo, legato alla alimentazione; l’altro era un dialogo sulla Madonna, per l’esposizione della reliquia del Sacro Chiodo, conservato in Duomo.
Dagli articoli ai libri: quanto conta la scrittura per lei?
La scrittura mi piace molto. Ultimamente è la cosa che mi piace di più. Ho trovato la modalità giusta per esprimermi.
Scriveva anche i testi per il Trio?
No, lì c’era più improvvisazione. Poi ci pensavano altri a fissare sulla carta il nostro lavoro. Questa della scrittura è una dimensione tutta mia, personale.
Lei ha fatto l’operaio e le serali, poi l’infermiere, poi il comico. La sua parabola può essere un esempio per i “neet”, purtroppo un primato italiano in Europa. Manca un sogno a questi ragazzi?
La questione è grande e seria. Non posso che rispondere facendo una enorme semplificazione: io sono nato alla fine degli anni ’50. C’era una tale fame di realizzazione nelle persone del dopoguerra, era la fame di affrancarsi dalla povertà. La pubblicità proponeva: un frigo per ogni famiglia. Ed era vero, noi non avevamo niente. Io e mia sorella non avevamo niente. E allora c’era la corsa ad accaparrarsi il bagno, il frigo, anche il lavandino a casa mia. C’era fame di conquista. Così, tutti avevamo una strada segnata. Oggi, invece, non si sa. Questo è il punto. Non si sa perché si fa quel che si fa. Guardi, quando il papa parla degli ultimi, io penso ai metropolitani.

Ci serve una spiegazione.
Noi ci dobbiamo occupare degli ultimi: così dice Francesco. E dice bene. Ma, vivendo io in una metropoli, non posso non pensare a quelli che vedo. I metropolitani, i milanesi corrono sempre, sono inquieti: fanno tanto e non sanno perché. Vale ancora di più per i ragazzi. Non si sa perché si fa tutto quello che si fa.
Ha nominato il Papa. Una foto vi immortala a San Siro.
Ho avuto fortuna. Tra le migliaia di mani che ha stretto c’era anche la mia. Non ho avuto incontri personali. Lo seguo, è molto carismatico, esce dagli schemi. Lui arriva. Ma oggi si prende solo quello che serve. Vale anche per sacerdoti, religiose e uomini di fede: dicono cose significative e interessanti ma poi vengono diciamo ’quasi’ ascoltati o ’apparentemente’ ascoltati. Apparentemente è un avverbio che ci metterei proprio.
Eppure ha titolato il suo ultimo libro: “Al paradiso è meglio credere”.
Il titolo riprende una frase di Pascal, la sua scommessa. Lui, inventore della statistica e della probabilità, aveva fatto un ragionamento sulla fede ed era giunto alla conclusione che sì, al paradiso conviene credere.
Per questo il protagonista si finge prete?
Non riesce a credere ma è attanagliato da questa fede mancata. Il pensiero lo perseguita. E allora, poiché non è riuscito ad averla dentro, la indossa con la veste. Fa il falso prete, perché non riesce ad essere un credente vero.
Lei ha dichiarato: “Dio è un artista”. Lo è anche lei: un’intesa doveva arrivare…
L’affermazione è forte. Lui è un artista per certo: basta guardarsi attorno. Io l’ho detto perché – anche se qui sintetizzo un concetto impossibile da sintetizzare – mi pare che il senso della vita, almeno come io l’ho compresa, è che lui voglia la gioia. E che noi, accettando la vita, con gioia ci mettiamo a giocare con Lui.
Cosa c’è nel suo futuro prossimo?
Fino a Natale porto in giro questo “Fare un’anima”. Ma per il 2019 c’è il nuovo film con il Trio, che credo cominceremo a scrivere già da ottobre-novembre.

Simonetta Venturin

direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)

 

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