Intervista / Maurizio Colasanti, direttore d’orchestra: “L’arte è un dono di Dio che abbiamo il dovere di coltivare”

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Maurizio Colasanti è direttore d’orchestra di fama internazionale e autore di saggi, musica e testi teatrali. Lo abbiamo incontrato per riflettere assieme a lui sull’importanza del tempo “creativo” nella vita dell’uomo e sul suo recente lavoro intitolato “La musica è sfinita” (ExCogita, Milano, 2019).

Nel suo intervento dedicato al “sabato” – pubblicato nel saggio “Tremila anni e non sentirli. Una rilettura sorprendente dei dieci comandamenti” (a cura di Silvana Carcano, Ancora edizioni, 2019) – lei afferma che la società contemporanea ha bisogno di momenti di “discontinuità”. È una riflessione interessante, soprattutto alla luce dei cambiamenti recati dalla pandemia.
La discontinuità di cui parlo si riferisce al valore del giorno del sabato, declinato in un’ottica contemporanea. L’arrivo del virus ha obbligato la società tutta a fare i conti con una condizione che credevamo estinta, almeno dal punto di vista sociale, l’isolamento. Ecco che il Covid 19 ci ha obbligati a una discontinuità con la normalità che credevamo intangibile. Ciò ha provocato in molti di noi un atteggiamento di insicurezza, paura nel futuro, precarizzazione che ci ha indotto, per sopravvivere, a cambiare i paradigmi esistenziali. Così abbiamo riscoperto il valore del tempo dell’esistenza, le passioni, la bellezza del contatto umano. Quando parlo di discontinuità nel libro di Silvia Carcano intendo significare quella/questa condizione esistenziale che ci permetta di porre al centro dell’esistenza valori quali le disposizioni spirituali, il concetto di bene, l’intimità dei perché e non il mero quantitativismo truccato da benessere posticcio. In quest’ottica, il forzato isolamento ci ha aperto gli occhi, come “un sabato”. Solo ponendo al centro queste profonde disposizioni intime, possiamo ottenere discontinuità, cioè sospendere dal vissuto quell’atteggiamento votato all’estetica esistenziale e favorire una disposizione intimamente più prossima al bisogno di coincidenza con l’infinito.

Sempre nel medesimo saggio, la similitudine – che lei suggerisce al lettore – tra Tavole della Legge e partitura musicale è molto suggestiva.
Più che una similitudine a me sembra una sollecitazione suggestiva ma reale e, per questo, da perseguire non solo con la fascinazione intellettuale, ma con un chiaro e predisposto compimento quotidiano.
Nella partitura non ci sono solo note e indicazioni. In quanto elemento vitalizzante, la partitura contiene altro che non sia semplice mappatura esecutiva. Ciò che vediamo scritto è una solo una parte infinitesimale del grande mistero che può rivelare, quando a leggerla c’è chi la vuole intendere e soprattutto chi ne persegue le finalità. Mi viene in mente, ad esempio, un corale di Bach dalla Passione di San Giovanni, O Grosse Lieb. Esso rivela una scrittura semplice, apparentemente arcaica, poche battute, un alito di musica. Eppure il suo ascolto trasmette una cosmogonia di sensazioni, un fiume inesauribile di bellezza, di gioia, di dolcezza, in una profondità che si fa via via più luminosa ad ogni ascolto. L’universo illimitato che veicola una partitura è sempre il risultato di una esecuzione che non voglio chiamare perfetta per evitare incidenti gnoseologici, ma che è veicolo di trasmissione del bene e del bello che la sua attuazione rivela.

In un’epoca che tende a razionalizzare in maniera eccessiva la quotidianità, mortificando di fatto il “genio creativo” dell’uomo, quale contributo offre la musica?
Il “genio” è semplicemente un uomo che ha lavorato duramente con se stesso e con il mondo che lo circonda non per evidenziare qualità oggettivamente alte, ma per fare della sua vita un impegno vivificante volto alla celebrazione del mistero dell’esistenza. In questo il contributo della musica è stato, è e sarà determinante. Essa non è solo un oggetto di promozione di mondi ideali ma vuole essere la testimonianza di un continuo ricercare l’autentica sostanza di ciò che siamo: nelle emozioni, nelle impressioni, nelle passioni.

Il tratto distintivo della contemporaneità è la tecnologia, che spesso si connota di “atonia emotiva”. A volte anche l’arte perde la sua vocazione e privilegia i tecnicismi della “performance” a scapito dell’“autentica sostanza”.
Soprattutto in campo musicale, soprattutto per ciò che concerne la musica colta, si è persa quella propensione per l’imperfezione che è uno dei suoi elementi più sorprendentemente vitali. Mi viene da pensare a Brecht quando in “Vita di Galileo” ammonisce: “Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi”. Il tratto distintivo della contemporaneità credo sia la solitudine. Siamo spinti da forze esterne e forze che covano nel nostro ego spento a essere passivi e meri esecutori di una partitura scritta da altri. La musica dovrebbe recuperare in termini di umanità, anche a rischio di essere paradossalmente imperfetta. Il successo della musica non sarà mai dato dal fatto di avere grandi esecutori e grandi orchestre, ma dal fatto che tutti ameranno suonarla.

La musica e l’arte, in generale, sono davvero “sfinite”?
La sfinitezza di cui parlo nel mio volume ha una declinazione liberatoria ed ermeneutica che deve essere vista in una prospettiva benigna. La sfinitezza è un valore: quando arriva al termine di un’azione intensa e proficua, è il risultato di un interesse e di un’efficacia. La musica, in particolare, e l’arte, in generale, saranno sempre più necessarie e sempre più sfinite, perché è questa la loro congenita attribuzione. Quando passeggiamo dentro un’opera d’arte con la nostra sensibilità e i nostri desideri, ci troviamo di fronte a un mezzo – si badi bene, non il fine – per immaginare la vera grandezza della nostra esistenza. L’arte è ciò che riesce a dare sostanza all’inquietudine; è ciò che riesce a farci percepire i confini dell’incertezza; è ciò che più di tutto può farci percepire l’essenza del nostro vissuto. L’arte è un dono di Dio, che abbiamo il dovere di coltivare come uno fra i più preziosi.

Silvia Rossetti

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