Interviste siciliane -18 / Emanuele Macrì concepì l’opera dei pupi come mezzo di formazione del popolo

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puparo Emanuele Macrì

Come si può dimenticare il grande maestro puparo Isidoro Emanuele Macrì ad Acireale, conosciuto come don Emanuele. Per la sua arte pupara è annoverato insieme ai fratelli Napoli di Catania e i Cuticchio di Palermo.

Bentrovato, maestro. Molti acesi ricordano le gesta di Orlando e Rinaldo nel teatro dell’opera dei pupi di via Alessi, magistralmente animati dalla vostra interpretazione. Ci racconti innanzitutto dove siete nato e cosa accade nella vostra vita.

Sono nato a Messina il 30 marzo 1906. Dopo qualche mese sono stato battezzato nella città dello Stretto, avendo come padrino l’acese Mariano Pennisi. Rimasto orfano a causa del terribile terremoto del 28 dicembre 1908, che rase al suolo Messina, il padrino di battesimo, che di mestiere faceva il puparo, mi ha adottato. Da quel momento mi trasferisco ad Acireale e inizio a conoscere l’arte pupara, aiutando Mariano Pennisi nei suoi spettacoli allestiti prima in via Tono e in seguito in via Alessi.

Grazie al vostro maestro Mariano Pennisi, siete divenuto un esperto manovratore dei pupi e un impeccabile direttore artistico, famoso anche fuori dalla Sicilia.

Nel 1953 esporto quest’arte dapprima a Roma e poi fuori dall’Italia, in Belgio, in cui sono omaggiato da Baldovino e Fabiola e dai principi Alberto e Paolo di Liegi, e in Olanda, Germania e Austria. Emanuele Macrì

Il prof. Antonio Pagano, in un articolo pubblicato su Memorie e Rendiconti dell’Accademia degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale nel 1984, scrive che vivevate da poeta.

Le dico di più. In un’intervista con il professore Giuseppe Berretta e i suoi studenti di III B dell’Istituto Magistrale Lombardo Radice di Catania, rispondo loro che prima della seconda Guerra mondiale l’opera dei Pupi era nel pieno dell’attività. Il puparo era considerato alla stessa stregua di un regista cinematrografico e teatrale. Il film muto concorreva a tener viva questa tradizione; quello parlato preparò il patibolo e la televisione sferrò il colpo di grazia.

Emanuele Macrì, come avete concepito il teatro dell’opera dei pupi?

Non come svago, ma come mezzo di formazione del popolo. Non ammettevo schiamazzi, sberleffi, battute estemporanee e spiritosaggini con doppi sensi pepati a dovere. Ero severissimo.

Qual è stata la vostra ultima opera rappresentata prima della morte avvenuta il primo febbraio 1974?

Il 27 gennaio, ottava della festa del compatrono san Sebastiano, ho messo in scena una delle storie più drammatiche e toccanti dei Paladini di Francia, la Rotta di Roncisvalle, il mio cavallo di battaglia. Ricordo che stavo malissimo. Avevo brividi di febbre.

Affinché la tradizione dei pupi continuasse negli anni avete costituito un vivaio di giovani leve.

Ho formato tanti ragazzi, come Fabrizio Busà, Giovanni Lo Giudice e Saro Privitera, per ricordarne alcuni, che hanno continuato anche dopo la mia morte. Anche mio figlio Toruccio si è formato sotto il mio insegnamento, ma ha deciso di vivere negli Stati Uniti. Ripetevo loro: i pupi debbono varcare l’Oceano.

 

Marcello Proietto