Michele Vecchio (Acireale, 29 marzo 1730 – Acireale, 14 aprile 1799), vissuto nel Settecento ad Acireale, fu una delle massime espressioni artistiche insieme a Pietro Paolo Vasta, Alessandro Vasta e Vito D’Anna.
Bentornato, Michele Vecchio. Prima di parlare dell’opera alla quale è più affezionato, vorrebbe parlarci della vostra giovinezza e della formazione artistica?
Da giovane inizio a frequentare la casa dello zio Pietro Paolo Vasta. Ricordo che il suo atelier-scuola si trovava proprio in casa sua. Lì ho conosciuto un altro artista – che verrà a trovarvi presto – Vito D’Anna, il più insigne dei maestri palermitani del secolo XVIII.
Con lui instauro fin da subito una salda amicizia. Con lo zio non andavo d’accordo, sono nate subito delle incomprensioni non solo di natura caratteriale, ma anche di diversa concezione dello stile pittorico. Mio zio era estroverso e improvvisatore; io, scrupoloso e attento, come ci ha ben descritto il preside Alfonso Sciacca nel catalogo In propria venit pubblicato nel 2001.
Avete forgiato la vostra formazione esclusivamente ad Acireale a casa dello zio Pietro Paolo Vasta?
Intorno al 1751 lascio Acireale per recarmi dapprima a Palermo, poi a Napoli, fino a Roma. Nella città eterna mi accoglie la cerchia dell’arciconfraternita di Santa Maria Odigitria, una corporazione i cui membri sono esclusivamente siciliani. Ricordo che la Madonna sotto questo titolo è la protettrice della Sicilia. Sempre a Roma partecipo ai concorsi Certamina clementina, indetti dall’Accademia di San Luca, dove nel 1758 e nel 1762 mi posiziono al secondo posto nella classe di pittura.
Michele Vecchio, dopo i successi clementini come procede la vostra carriera artistica?
Dopo varie tappe tra Vienna e Roma, ritorno in Sicilia dove nel 1764 affresco la volta della chiesa di Santa Teresa a Messina. La badessa, appartenente alla nobiltà cittadina, prima di affidarmi il lavoro si era rivolta al mio amico Vito D’Anna, il quale lo rifiuta perché oberato di impegni e soprattutto inizia ad avvertire gravi problemi di salute. Malauguratamente di questi affreschi non rimane più traccia, sono stati distrutti dai continui terremoti inflitti alla città sullo Stretto.
Il ritorno nella vostra città, Acireale, com’è stato? Quale ambiente vi ha accolto?
Mio zio Pietro Paolo Vasta era stato il pittore di punta della città. La curia cittadina e il patriziato urbano gli avevano affidati numerosi lavori, come ancora oggi possiamo ammirare nelle chiese e nelle collezioni private. La maniera vastesca era caratterizzata da colori fervidi e vivaci; le mie opere, invece, sono cupe e dimesse. La committenza non è ancora preparata al cambiamento di stile. Alla morte dello zio, il suo degno successore è stato il figlio Alessandro.
Noi acesi siamo molto legati alla tela che ha realizzato nel 1765/66 per la basilica di San Sebastiano ad Acireale, Il trionfo di San Sebastiano, posta a copertura della cappella del santo.
La tela misura 280×190 cm. Posso definirla un’opera spoglia, rispetto alle altre realizzate. Al centro ho voluto rappresentare san Sebastiano in atto di salire in cielo con le braccia leggermente aperte. Il drappo rosso intenso che gli avvolge il corpo simboleggia il duplice martirio subito, le frecce e la decapitazione. Particolarità della tela è la parte inferiore in cui ho riprodotto la città di Acireale come si presentava a quell’epoca. Come potete notare è una città in cui si trovano tante chiese e svettano altrettanti campanili; emergono i faraglioni di Acitrezza, il Castello di Aci, il forte del Tocco alle Chiazzette. Domina la scena l’Etna dal cui cratere scorre un fiume di lava che minaccia la città.
Marcello Proietto