Ricordiamo, a 50 anni dall’assassinio, John Fitzgerald Kennedy, il grande uomo di Stato che unì i popoli della terra nel rispetto del diritto internazionale, nella ricerca della giustizia sociale per tutte le classi, all’interno del Suo Paese, nella difesa della pace per la realizzazione della vera democrazia.
Quando, il 2 gennaio del 1960, il Senatore John F. Kennedy pose la candidatura alla Suprema carica del Paese, gli Stati Uniti stavano vivendo un periodo negativo, tra i più della loro storia recente. La recessione, la crisi economica e la disoccupazione facevano sentire i loro effetti, l’Unione Sovietica – in campo internazionale – dava l’impressione di poter condurre la corsa all’esplorazione dello spazio (lancio del satellite Sputnik) in netto vantaggio, i problemi della giustizia sociale e razziale erano tutti sul tappeto. Come se non bastasse, il drammatico incidente dell’aereo spia americano, precipitato sul suolo dell’Unione Sovietica, nel maggio del 1960, nell’imminenza del vertice di Parigi tra il presidente Ike Eisenhower e il primo ministro Nikita Kruscew, servì pure a far ripiombare (rectius: rilanciare indietro) i rapporti tra i due maggiori Paesi, più tecnologici del mondo, facendo sentire di nuovo tutto il peso della guerra, fredda, da cui negli anni del secondo mandato presidenziale repubblicano, si stava cercando, e faticosamente, di venir fuori. Infatti, il vertice di Parigi fu annullato e gli Stati Uniti, agli occhi dell’opinione pubblica interna ed internazionale non fecero una bella figura, sicuramente dal punto di vista morale e per quanto concerneva la giusta vigilanza sull’operato dell’Ente di spionaggio.
Forse, anche a causa di queste premesse politiche, si consolidò, nell’ambito del partito democratico, la prospettiva di rinnovare la leadership con la messa al vertice di un uomo completamente nuovo, che aveva precedentemente dimostrato, quale senatore, ampia indipendenza nell’esercizio del mandato in rappresentanza dello Stato del Massachusetts al Congresso degli stati Uniti e professava con chiarezza un nuovo linguaggio politico e la propria fede nel poter mantenere” la promessa di rimettere in moto il Paese”, sollevandolo dalla profonda depressione economica e morale in cui si dibatteva.
Così, alla Convenzione democratica di Los Angeles, John F. Kennedy si presentò in grado di vincere la candidatura del Partito democratico, subito, al primo scrutinio, introdusse la dottrina politica della “Nuova Frontiera”, offrì agli elettori un progetto politico di rinnovamento dai “vecchi schemi”, con l’attenzione ai diritti civili della popolazione di colore, alla tutela della parte della popolazione più bisognosa e disagiata, ed in politica estera pose la promessa di rendere il Paese competitivo, accettando la sfida pacifica dell’Unione Sovietica nel settore dell’esplorazione dello spazio, della ricerca scientifica e delle nuove scoperte tecnologiche, tutte messe al servizio della popolazione e della causa della pace.
Il convincente messaggio, indirizzato dal candidato democratico alla presidenza, da posizioni di centro del partito, conquistò gli elettori e fece in modo che le elezioni generali dell’8 novembre 1960 potessero premiare la piattaforma ed il programma, ed assegnare il successo al senatore del Massachusetts, il quale, infatti, prevalse sul vice-presidente Nixon, per poco più di 100.000 voti.
Certamente, il sapiente uso del mezzo televisivo – una assoluta novità all’inizio degli anni “60 – e l’intelligente, capillare organizzazione della campagna elettorale, posta sotto la direzione di Robert Kennedy, risultarono decisivi a favore dell’esponente democratico.
Una volta eletto ed insediato in carica, il 20 gennaio del 1961, il giovane neo-presidente mantenne nei confronti degli elettori ogni impegno contenuto nel messaggio d’insediamento.
Aveva, infatti, affermato che, avrebbe aiutato i popoli poveri, non solo all’interno degli Stati Uniti, ma in tutto il mondo, “ad aiutarsi per uscire dalla miseria, e non per desiderio di pubblicità, ma per fine di giustizia…”, ed il suo primo atto, come presidente, fu quello di raddoppiare, con un decreto-legge presidenziale avente effetto immediato, la razione di viveri per gli americani indigenti. Istitutì, poi, l’”Alleanza per il progresso”, un programma decennale di aiuti economici per i Paesi sottosviluppati dell’America Latina e dell’Africa, varò il programma “Food for peace”, che prevedeva l’invio delle eccedenze agricole americane a chiunque ne avesse bisogno, formò ed organizzò il corpo dei Volontari della Pace, con l’espresso incarico d’interscambio culturale di insegnanti, esperti e tecnici tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi del Mondo. Più di qualsiasi altro predecessore, diede rilievo alla cultura, ed i suoi consiglieri ed esperti nelle varie materie, irriverentemente definiti “heads egg”, costituirono un formidabile team ed un eclatante esempio di quella costruttiva collaborazione che può e deve costituirsi tra intellettuali e politica, per i fini più nobili di una Nazione.
Chiese, poi, sempre nel messaggio d’insediamento, ai Paesi avversari di “fare un tentativo, uno sforzo, decisivo, per mantenere la pace”, prima che “la terrificante forza dell’atomica” annientasse l’intera umanità. Anche in questo settore mantenne la promessa e fu l’uomo della pace e del dialogo con tutti i Paesi del Mondo, nella diversità dei loro sistemi politici.
Noi oggi lo ricordiamo, con grande, immutato e particolare affetto, come il grande Leader mondiale non solo per il modo inaspettato e tragico della sua incredibile ed inimmaginabile scomparsa, ma anche per i valori morali, indiscussi ed in discutibili che infuse nel suo lavoro, rendendo la sua presidenza tra le più ricordate ed amate della storia americana, per le sue capacità intellettuali tanto elevate ed acute pur a dispetto della giovanissima età d’investitura nella carica, per la sua lotta contro i pregiudizi, l’egoismo e la guerra, che lo resero un leader aperto ai problemi mondiali e deciso – per ricordare le sue stesse parole “a creare non un nuovo equilibrio di potenze ma un mondo nuovo dove sia sovrana la legge, i forti sino giusti, i deboli protetti e la pace sia garantita per sempre”.
La comprensione che il giovane presidente ebbe dei problemi mondiali, l’impegno e la dedizione consacrati alla causa della pace nel Mondo, attraverso la ricerca del dialogo tra i popoli in generale – e non solo nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica – pongono il presidente Kennedy in una elevata dimensione storica al punto che é stato bene definito come “l’uomo, il più adatto, fra quelli del suo tempo, ad essere presidente” ovvero come “l’uomo che fu all’altezza degli anni 60”.
Nel firmamento della politica internazionale, la stella del 35° presidente americano ci sarà sempre e brillerà perenne ad illuminare il futuro della storia dei popoli del Mondo.
Sebastiano Catalano