La Chiesa non parla solo ai credenti praticanti

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Si è tutti facilmente d’accordo che un tema come quello del fine vita sia talmente delicato da dover essere affrontato con animo libero e senza dogmatismi. Né in campo religioso, né in campo laico. La posta in gioco è troppo alta. In particolare, ci si deve confrontare con due temi fondamentali, che sono il significato della vita e quello della libertà. Per farlo è sufficiente guardare a quello che millenni di civiltà ci hanno consegnato. L’errore oggi frequente è, invece, quello di pensare di dover scrivere su un quaderno bianco, come se la storia cominciasse con noi. Ora, sarebbe più onesto dire di non essere d’accordo con quello che è stato costruito nei secoli, piuttosto che ingannare gli altri, negandone l’esistenza e le conquiste raggiunte.
La cultura occidentale si è formata sulla convinzione che vi sono alcuni punti – chiamati non a caso “valori” – che precedono ogni visione personale, persino quella religiosa.
I credenti sono convinti che, non di rado, la fede ha aiutato la ragione a ritrovarli, superando i condizionamenti temporali e i ripiegamenti. È stato così con il principio di uguaglianza che, sostenuto da molti cristiani, ha permesso di giungere all’abolizione della schiavitù; è stato così con il principio ippocratico di beneficenza, che arricchito dalla virtù evangelica della carità, ha portato, per esempio, all’istituzione degli ospedali. Risultato di queste conquiste è la consapevolezza che tutti hanno diritto alla vita – dal concepimento alla morte naturale – e che a nessuno possono essere negate le cure necessarie. Risultati che hanno rafforzato l’idea di come la vita umana non sia un bene disponibile; al contrario, è affidata alla persona e alla società. In questo senso la libertà è responsabilità, cioè accogliere il valore e garantirgli nella concretezza che resti tale e non sia umiliato. La libertà é onorare quello che è l’altro e quello che è nell’altro.
Certo, si dovrà comprendere che cosa onora la persona e che cosa va contro di essa; ad esempio, il vitalismo – cioè il tenere in vita un organismo destinato a morire – non rispetta la dignità della persona. Analogamente, sospendere trattamenti, che non sono medici – anche se garantiti da personale sanitario e nella modalità medica – ma sono di sostegno alla persona, è contro la persona: significa far morire. È il caso specifico dell’alimentazione e dell’idratazione, la cui sospensione si configura come eutanasia.
A questa consapevolezza ci hanno condotto secoli di cultura. La maturità permette di valutare attentamente come onorare l’uomo con quanto la medicina oggi permette di realizzare. Così, il “non uccidere” e il “non uccidersi”, che appartengono, prima che alla religione, alla legge naturale, iscritta nel cuore di ogni uomo, sono oggi ancora più possibili, grazie alla terapia del dolore, sviluppata, ormai, anche in forme domiciliari. Insomma, oggi si hanno a disposizione molti più strumenti tecnici per permettere un fine vita “umano”. La generazione odierna può essere contemporaneamente esperta di umanità e capace di gesti di umanità. Chi, al contrario fossilizza il valore della vita come reliquia del cristianesimo, non legge in verità la storia del nostro popolo.
Certamente, non si può mai considerare il patrimonio culturale come qualcosa di assimilato dalle persone, per il semplice fatto che esse vengono dopo un’altra generazione. Sì, a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, “perché la libertà dell’uomo – ha scritto il Papa – è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni” (“Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, 21/01/2008). Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti propri e rinnovati attraverso una spesso sofferta, scelta personale.
Se il rispetto incondizionato alla persona dell’altro e a se stessi appartiene al patrimonio culturale del nostro Paese, è anche vero che la Chiesa lo riesprime frequentemente motivandolo con argomenti razionali e di fede, capaci di gettare una luce forte sulle odierne sfide. In questo modo fa scuola di laicità, perché, nella continuità con la cultura da cui proveniamo, mostra come i diversi saperi si armonizzino tra loro per il bene dell’uomo. Pensare che la Chiesa debba essere ascoltata solo dai credenti praticanti è un nuovo dogmatismo, peraltro sconfessato dall’ultimo referendum in materia di bioetica.

                                                                                                                                                         Marco Doldi

                                                                                                                                                              (SIR)