Per la quinta domenica di seguito ritorna il giorno di Pasqua nelle letture; è un rimanere nel tempo in cui, per i cristiani, inizia la storia di fedeltà al Signore. Il verbo rimanere, è ripetuto sette volte nel testo giovanneo, come dire: non possiamo pensare alla nostra esistenza senza tornare a quel “terzo giorno”, proprio per conservare, nel nostro cuore, ciò che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella liturgia. Rimanere perché, scrive Giovanni nella sua prima lettera, “chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui”.
Insieme al verbo rimanere troviamo l’immagine della vite e dei tralci. Immagine classica nella Bibbia: la vite e la vigna sono Israele e descrivono il rapporto tra Dio e il suo popolo; e se in Isaia la vigna ha prodotto acini acerbi e per questo viene calpestata, nel Vangelo di Giovanni leggiamo che il tralcio non buono viene bruciato. La vite non è più Israele ma Cristo stesso: “Io sono la vera vite, e il Padre mio è l’agricoltore” e i tralci sono gli apostoli, i fedeli. Si era già presentato come il buon Pastore, ossia colui che guida il gregge – i fedeli – fino ad offrire la sua vita perché egli non è un mercenario e non lo fa per interesse personale, come abbiamo letto domenica scorsa.
In questa domenica, dunque, l’immagine della vite, l’antico segno biblico della vigna. E come in Isaia, Giovanni riporta le parole di Gesù che sono un severo monito: se non rimaniamo in lui, il tralcio si secca, e “poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Mentre il tralcio che porta frutti è potato perché ne porti in misura maggiore.
Come sempre sono immagini che vanno lette per il valore simbolico che portano. Intanto il riferimento a Isaia e all’Antico Testamento. Poi, ed è quello sul quale soffermarci, cosa significa per noi questa immagine. Innanzitutto è un riferimento a ricordare quali sono le nostre radici. In secondo luogo il verbo potare, che non va inteso come un modo per far soffrire per poi migliorare. Papa Francesco lo ricorda al Regina Coeli: rimanere il Cristo significa “riceve la vita da lui, anche il perdono, anche la potatura, ma riceverla da lui”.
Ognuno di noi ha l’esperienza di un cammino fatto di segni positivi e altri un po’ meno, sentimenti cattivi, abitudini egoistiche, atteggiamenti freddi.
Francesco decidendo d’indire l’Anno della Misericordia, vuole proprio farci riscoprire questo rapporto privilegiato con il Signore. Rimanere in Gesù, dice nell’omelia alla parrocchia di Ostia, visitata nel pomeriggio di domenica, significa “cercare Gesù”, anzi “fare quello che ha fatto Gesù, avere lo stesso atteggiamento di Gesù. Ma quando noi sparliamo degli altri, quando noi chiacchieriamo non rimaniamo in Gesù, quando noi siamo bugiardi non rimaniamo in Gesù, mai lo ha fatto; quando noi truffiamo agli altri con questi affari sporchi che sono alla mano di tutti sono tralci morti, non rimaniamo in Gesù. Rimanere in Gesù è fare lo stesso che faceva lui, curare gli ammalati, aiutare i poveri, avere la gioia dello Spirito Santo”.
Impegno certo non facile, e lo viviamo nella nostra quotidianità. Di qui l’immagine dei tralci potati, cioè del perdono che ci viene sempre offerto per i nostri peccati, le nostre mancanze. Siamo tralci che faticano e fanno pochi frutti, possiamo dire rimanendo nell’immagine evangelica. Si domanda il Papa: sono unito alla vite “che mi dà vita, o sono un tralcio morto incapace di dare frutti e testimonianza”? Poi ci sono tralci che si dicono discepoli ma fanno il contrario: “Sono i tralci ipocriti, forse vanno tutte le domeniche a Messa, forse fanno faccia da immaginetta, tutte pie, ma poi vivono come se fossero pagani: e a questi Gesù nel Vangelo li chiama ipocriti”.
Essere tralci legati alla vite significa essere capaci di vivere in modo nuovo, “vedere il mondo e le cose con gli occhi di Gesù. Di conseguenza, possiamo amare i nostri fratelli, a partire dai più poveri e sofferenti, come ha fatto Lui, e amarli con il suo cuore e portare così nel mondo frutti di bontà, di carità e di pace”.
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Fabio Zavattaro