Sono passati quaranta giorni dalla Pasqua e Gesù è “elevato in alto”. Quaranta giorni come il tempo da lui trascorso nel deserto, digiunando giorno e notte. Quaranta come gli anni nel deserto trascorsi dal popolo di Israele. Antico e Nuovo Testamento che camminano assieme, per descrivere un tempo di attesa, ma anche di cambiamento, di conversione. L’Ascensione è un guardare al cielo avendo i piedi piantati in terra; un tempo che rafforza e dà senso alla testimonianza cristiana. L’evento, ricordava Papa Benedetto XVI nel 2009, è descritto “non come un viaggio verso l’alto, bensì come una azione della potenza di Dio, che introduce Gesù nello spazio della prossimità divina”.
Camminare dunque con i piedi per terra pur avendo come meta la Gerusalemme celeste; pellegrini provvisori in questo momento che trascorriamo sulle strade della vita terrena; tempo nel quale, come leggiamo nella Lettera A Diogneto, i cristiani “dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo”.
Non si tratta, però, di trascorrere la vita fermi a contemplare il cielo attendendo un segno, quasi un allontanarsi per non rispondere alle sfide che la vita quotidiana ci pone. Guardare al cielo significa avere ben salda la meta del nostro pellegrinare. Così gli apostoli, che sono stati testimoni della resurrezione e della salita al cielo. Salito avvolto da una nube, che, leggiamo in Luca, “lo sottrasse ai loro occhi”. Anche qui, torna l’immagine che lega Antico e Nuovo Testamento: la nube del Sinai, e quella luminosa sul monte della Trasfigurazione. Il cielo, indica, ricordava sempre Benedetto XVI nel 2009, non un luogo sopra le stelle, “ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità”.
Con l’Ascensione, dunque, siamo chiamati a guardare un po’ oltre il nostro naso, ad alzare gli occhi per cercare di scrollarci di dosso le nostre piccolezze, le nostre miserie; un mondo nel quale piuttosto che prevalere la forza del diritto, come ricordava Giovanni Paolo II, sembra si dia sempre più spazio al diritto della forza.
Ecco che allora in questa festa ci viene chiesto di essere testimoni, perché, come ha affermato Papa Francesco all’omelia della messa nella quale ha proclamato quattro nuove sante, due di loro sono le prime sante palestinesi dell’era moderna, “la missione di annunciare Cristo risorto non è un compito individuale: è da vivere in modo comunitario”, testimoniando l’unità fra di noi e la carità verso tutti. Essere apostolo, ricorda sempre Francesco, non significa “assumere una carica, ma un servizio”. E la nostra fede è legata saldamente alla testimonianza degli apostoli “come ad una catena ininterrotta dispiegata nel corso dei secoli non solo dai successori degli apostoli, ma da generazioni di cristiani”. Testimoni negli ambienti “dove più forte è l’oblio di Dio e lo smarrimento dell’uomo”.
L’Ascensione è il primo segno, se vogliamo usare una espressione cara a Papa Francesco, della chiesa in uscita. Perché se è vero che abbiamo, da un lato, la “partenza” del Signore, il suo andare verso l’alto, abbiamo anche, dall’altro lato, la “partenza” degli apostoli, con quelle parole di Marco: “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”. L’evangelista descrive anche i segni che accompagnano coloro che credono: cacciare i demoni, parlare le lingue, guarire i malati. A leggere bene queste parole non è che siamo chiamati tutti a essere medici o guaritori, a saper parlare le lingue del mondo, una sorta di grande poliglotta. Giovanni Paolo II lo aveva sintetizzato, iniziando il suo Pontificato, con quel non aver paura di aprire le porte a Cristo. Quel guarire, allora, cos’è se non il portare il sorriso sul volto dei nostri fratelli in difficoltà, aiutare a ridare dignità a chi l’ha persa, con una lingua nuova, universale: quella dell’amore, della tenerezza. Della misericordia, per ricordare Papa Roncalli del Concilio, e Francesco che il prossimo 8 dicembre aprirà l’Anno della Misericordia, nel giorno in cui Paolo VI, 50 anni fa, concludeva il Concilio Vaticano II.
Fabio Zavattaro