Abbiamo appena celebrato la Pentecoste e ci prepariamo a vivere il Corpus Domini. La liturgia torna al tempo ordinario e ci troviamo a mettere in primo piano una festa tutt’altro che ordinaria: la santissima Trinità. Il pensare a Dio, il rivolgersi a Cristo sono momenti che accompagnano la vita del credente; le letture di questa ultima domenica del mese di maggio ci portano invece a mettere insieme le tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ci chiamano a scendere più in profondità nella riflessione, cogliendo, nella loro totalità, i fatti accaduti a partire dall’ingresso a Gerusalemme, dalla Pasqua fino appunto alla Pentecoste. Una festa “strana”, perché non fa memoria di un evento della vita di Cristo, ma piuttosto si richiama a una definizione figlia dei Concili di Nicea, del 325, e di Costantinopoli, poco meno di sessanta anni più avanti: la Trinità appunto, o, come fa qualche teologo, la Tri-unità. È festa che rinnoviamo ogni volta che facciamo il segno della croce: gesto per dire che siamo “figli di un Padre che si è donato gratuitamente e da cui siamo creati e a cui apparteniamo; fratelli del figlio di Dio, Gesù, mandato dal Padre per salvarci e talmente vicino a noi da essere pane di vita, abitati dall’amore stesso di Dio, lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, effuso su di noi nella cresima, che assiste e da forza nella difficile nostra vita”, ricorda monsignor Antonio Riboldi.
Il brano di Giovanni mette in evidenza alcune cose: innanzitutto l’affermazione di Gesù ai discepoli – “molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso” – va letta alla luce dei fatti che sarebbe accaduti. Ci troviamo a leggere le parole che vanno sotto il nome di discorsi di addio, o di arrivederci, e per Gesù è imminente la sua ora: “È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore”. E più avanti sempre in Giovanni leggiamo: “Ancora un poco e non mi vedrete”. Allora quel “il tornare al padre” ci offre una duplice lettura: da un lato ci permette di cogliere l’unità nella Trinità, l’insieme attraverso le tre persone. Dall’altra, la frase “non siete capaci di portarne il peso” indica la volontà di coinvolgere i discepoli: si costruisce insieme, e solo con la partecipazione del credente, che si completa l’opera.
Fermandosi su questo discorso di addio, Papa Francesco, all’Angelus, spiega: “Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti”.
Lo Spirito ci aiuta, dunque, a comprendere molte cose; ma non si tratta di dottrine nuove o speciali, ricorda Francesco all’Angelus, “ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli. Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini”.
Ma c’è un altro aspetto che il Papa evidenzia, e cioè che la “famiglia divina” non è chiusa in se stessa, “ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte”. È una prospettiva che “ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio”. Il nostro essere creati a immagine e somiglianza di Dio, ci dona la prospettiva di “esseri in relazione”, innanzitutto nelle comunità ecclesiali ma anche in ogni altro rapporto sociale. E la festa della Trinità, afferma ancora Francesco, “ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia”. In questo siamo sostenuti dalla forza dello Spirito, che “cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità”.
Fabio Zavattaro