L’evangelizzazione “non è opera di alcuni specialisti, ma dell’intero popolo di Dio, sotto la guida dei pastori”. E ogni fedele, all’interno della comunità ecclesiale e con essa, è chiamato a “sentirsi responsabile dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo”.
Incontra, Benedetto XVI, nella sala degli Svizzeri a Castel Gandolfo, i vescovi di recente nomina partecipanti al convegno promosso dalle congregazioni per i vescovi e per le Chiese orientali e si sofferma a riflettere sul tema della nuova evangelizzazione. E lo fa partendo dalle parole di Giovanni XXIII secondo il quale il Vaticano II sarebbe stato “un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze”; per questo affermava che “è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo”.Rileggo queste parole nel luogo dove è stato pronunciato il discorso delle beatitudini, poco distante dal lago di Tiberiade, dopo aver sostato sul monte Carmelo. Certo è un’esperienza davvero straordinaria poter riflettere in un luogo così significativo. Le parole assumono una forza diversa in queste latitudini. Così proseguendo nella riflessione di papa Benedetto, si coglie quella sottolineatura secondo la quale la nuova evangelizzazione “è iniziata proprio con il Concilio, che il beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell’umana attività”. Sono le parole con le quali papa Roncalli ha concluso la prima sessione del Concilio, l’8 dicembre 1962. Benedetto XVI sottolinea: “Gli effetti di quella nuova Pentecoste, nonostante le difficoltà dei tempi, si sono prolungati, raggiungendo la vita della Chiesa in ogni sua espressione: da quella istituzionale a quella spirituale, dalla partecipazione dei fedeli laici nella Chiesa alla fioritura carismatica e di santità”.
Ma già il Concilio stesso, nei suoi tempi e nei suoi luoghi, aveva fatto capire che spirava un vento nuovo. Giovanni XXIII pronuncia il suo celebre discorso di apertura – “Gaudet Mater Ecclesia” – prendendo le distanze dai cosiddetti profeti di sventura e invitando a usare la medicina della misericordia piuttosto che condannare. Pronuncia il suo discorso nella basilica di San Pietro davanti a un numero incredibile di vescovi e rappresentanti delle Chiese sorelle.
Paolo VI, invece, sceglie la piazza di San Pietro per concludere il Concilio, tre anni dopo l’apertura. Consegna i messaggi al mondo, ai giovani, agli uomini di cultura, ai governanti. Quasi una scelta che interpreta in profondità le aperture conciliari: non semplice simbolismo, ma testimonianza visibile di profonda trasformazione nelle abitudini della Chiesa. Una Chiesa che visibilmente usciva dai sacri palazzi e si spingeva verso l’uomo contemporaneo, per dialogare con credenti e non credenti. C’era stato il viaggio, gennaio 1964, a Gerusalemme e l’abbraccio di Paolo VI con il patriarca di Costantinopoli, Atenagora; c’era stato il gesto, di cattolici e ortodossi, di cancellare le reciproche scomuniche, proprio alla vigilia della conclusione del Concilio. Un Papa, Paolo VI, che aveva preso saldamente in mano le redini del Concilio, affrontando con fermezza e serenità i rischi di portare avanti il lavoro avviato dal suo predecessore, mediando, con intelligenza e sapienza, fra le diverse tendenze dei padri conciliari, superando i tanti conflitti e i momenti bui che segnarono il dibattito su alcuni temi discussi nei lavori in aula.
Un Papa, Montini, che accompagna la conclusione del Vaticano II affermando che “se non poche questioni, suscitate nel corso del Concilio stesso, rimangono in attesa di conveniente risposta, ciò indica che non nella stanchezza si chiudono i suoi lavori, ma nella vitalità che questo Sinodo universale ha risvegliata, e che nel periodo post-conciliare, con l’aiuto di Dio, rivolgerà a tali questioni le sue generose e ordinate energie”.
Concilio che consegna alla storia, dirà sempre papa Montini, “l’immagine della Chiesa cattolica raffigurata da quest’aula, piena di pastori professanti la medesima fede, spiranti la medesima carità, associati nella medesima comunione di preghiera, di disciplina, di attività, e – ciò ch’è meraviglioso – tutti desiderosi d’una cosa sola, di offrire se stessi, come Cristo nostro Maestro e Signore, per la vita della Chiesa e per la salvezza del mondo”.
Così Benedetto XVI può dire ai neo vescovi, a Castel Gandolfo, con le parole di Paolo VI, che “occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo… partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra di loro e con Dio”.
Riflessione che ci aiuta a vivere i prossimi appuntamenti, quali l’apertura del Sinodo sulla nuova evangelizzazione e dell’Anno della fede, l’11 ottobre prossimo.
Fabio Zavattaro