Il nostro Paese, grazie anche all’istituzione del Giorno del ricordo nel 2004 da parte del Parlamento, ha accettato d’inserire nella propria memoria storica il dramma che i popoli della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia vissero alla metà degli anni Quaranta del secolo scorso.
Un ricordo a lungo volutamente chiuso negli armadi della Storia affinché lo scorrere del tempo cancellasse i nomi, i volti, le storie di chi aveva visto la propria vita sconvolta da quella che fu vera e propria pulizia etnica.
Le foto in bianco e nero di quei giorni ci rimandano le immagini di chi, da un giorno all’altro, dovette abbandonare un passato fatto non solo di proprietà materiali ma anche e soprattutto di ricordi e affetti per andare verso un futuro in cui l’incertezza era l’unico punto di riferimento. L’audio di allora dobbiamo immaginarcelo: i saluti colmi di lacrime fra chi se ne andava e chi aveva comunque deciso di restare; il rumore delle chiavi che per l’ultima volta chiudevano porte che, sino allora, avevano custodito il calore di una casa divenuta oggi estranea; le urla al momento di imbarcarsi…
Quello che rimaneva era il silenzio delle foibe dove erano stati gettati i corpi di chi si era opposto o, nella paura dei “vincitori”, avrebbe potuto opporsi, all’ideologia dominante.
A violare nel profondo l’anima del Carso, penetrandola nella propria intimità più sacra e riempiendola dei corpi di tanti innocenti (ed i corpi degli italiani si erano sovrapposti a quelli dei tedeschi, degli sloveni, dei croati..) era stato l’odio che solo gli uomini sanno avere nei confronti degli altri uomini. Quell’odio aveva riempito ogni anfratto, sigillandone l’apertura per decenni: un sigillo divenuto più spesso ogni volta che qualcuno – da una parte o dall’altra – cercava una giustificazione per quello che non poteva né doveva essere giustificato.
Ora è possibile e doveroso svuotare le foibe. Non dai corpi o dalla memoria, ma dall’odio che le ha troppo a lungo violentate: per farlo è necessario che ognuno di noi, secondo le sue piccole o grandi responsabilità, si impegni perché nessun odio nel nome della lingua, della cultura, della razza, della religione trovi ancora ospitalità e giustificazione.
Pare scontato ma, 71 anni dopo il dramma dell’Esodo, non lo è.
Mauro Ungaro