La rinuncia del Papa. Erri De Luca (scrittore): “Ortodossia al culmine”

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Un non credente, appassionato di Sacre Scritture. Appassionato al punto da imparare la lingua originale dell’Antico Testamento, l’ebraico antico; al punto da mettersi alla prova con traduzioni molto letterarie come nel caso di “Esodo/Nomi” (1994), di “Giona/Ionà” (1995), di “Kohèlet/Ecclesiaste” (1996) e del “Libro di Rut” (1999). “Sono un appassionato semplice, un lettore semplice ma assiduo di queste Scritture, semplice perché sono non credente. Sono un non credente quindi, non un ateo, non escludo Dio dalla vita degli
altri, dal fatto che gli altri possono ospitare questa rivelazione grandiosa, che io non riesco a ospitare. Non la escludo dalla vita degli altri e vedo nella vita degli altri dei segni consistenti di questa rivelazione. Ci sono delle tracce nella vita degli altri, ma non nella mia”.

MIDEAST-ISRAEL-ITALY-ART-DE LUCAA parlare è lo scrittore, traduttore e poeta, Erri De Luca che nei giorni scorsi a Mandela, piccolo centro della provincia di Roma, in un incontro promosso dall’Associazione Università delle tre età, ha risposto a numerose domande del folto pubblico presente, ripercorrendo i tratti essenziali della sua arte e i temi a lui cari, a partire dai ricordi d’infanzia, dall’amore per i libri, per la scrittura e, appunto, per le Sacre Scritture. A margine dell’incontro, il Sir lo ha incontrato e gli ha posto alcune domande, a partire dalle ultime vicende legate alla rinuncia di Benedetto XVI.

Cosa pensa della rinuncia di Benedetto XVI?
“Siamo in una fase storica, un momento intenso della vita della Chiesa. Credo che Benedetto XVI abbia fatto bene ad anticipare i tempi della sua rinuncia per lasciare libero spazio a questa dialettica che esiste all’interno della Chiesa. Ci sono scontri forti di posizioni e vedute che si sovrappongono e non mi riferisco certo ai meri conflitti d’interessi di cui sente parlare. La sua rinuncia è un solenne atto di umiltà. Riconoscere che le sue forze sono inadeguate all’incarico è stato un atto di umiltà sconvolgente, specialmente per una persona che è stata sempre in cattedra, stabilendo l’ortodossia della tradizione cristiana. Ha riconosciuto un proprio deficit e io lo ammiro per questo suo sconvolgimento personale”.

Si avvicina il momento del Conclave…
“Penso che i cardinali elettori avranno un compito difficilissimo. Spero che esca un giovane Papa pastore che riannodi le fila della Chiesa e che magari pensi anche a un Concilio Vaticano III”.

Come giudica questi otto anni di pontificato di Benedetto XVI?
“È stato un pontificato di alto livello intellettuale, forse più debole sul piano dell’impatto della Chiesa sul mondo moderno. La Chiesa si è irrigidita arroccandosi intorno a questa supremazia intellettuale. Ma la Chiesa ha sempre avuto questa frequenza di onde in cui scende al fondo della realtà, sporcandosi le mani e altre di assestamento e di ricorso all’ortodossia. Questa fase dell’ortodossia ha raggiunto il suo culmine con papa Ratzinger”.

Da appassionato delle Scritture come ha detto di essere, cosa pensa dell’invito di papa Ratzinger, lanciato per l’Anno delle fede, a riscoprire la Bibbia?
“L’esortazione a riscoprire il gusto di nutrirci delle Scritture Benedetto XVI l’ha mutuata da Giovanni Paolo II e chiaramente dal Concilio Vaticano II. Ma la parola non è, a mio avviso, solo quella codificata e commentata nelle Scritture, è anche quella che sorge continuamente nell’ambito dell’intervento sul campo. È parola quella di un prete di frontiera, che sta a Scampia, per esempio. Anche quella è parola che diventa avvenimento e azione. Parola che porta conseguenza”.

Come laico non credente, pensa che, in questo pontificato, il dialogo fede-ragione abbia fatto dei passi in avanti?
“Penso che la fede si sia sempre dovuta misurare con la ragione e il rapporto ha fatto sempre dei passi in avanti. La Chiesa li ha resi concreti con iniziative come quelle del cardinale Martini, con la cattedra dei non credenti, o di Benedetto XVI con il Cortile dei gentili cui ho partecipato (Firenze, 17 ottobre 2011, in dialogo con Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, ndr). È un luogo aperto in cui si può esprimere con chiarezza il proprio pensiero senza sentirsi fuori tema”.

Vede progressi anche nel campo del dialogo interreligioso?
“Sul piano del dialogo con le religioni non vedo grossi passi avanti. Le religioni possono dialogare ma non convergere. Le religioni monoteiste non sono conciliabili, non possono formare una federazione di monoteismi”.

Tornando alle Sacre Scritture, da dove nasce la sua passione per lo studio e la conoscenza dell’ebraico antico?
“L’ebraico antico è il testo originale della nostra civiltà religiosa e, per questo, desideravo sapere come era fatta quella storia che aveva preso la parola e l’aveva messa al gradino più alto della comunicazione. Una parola, quella della divinità, per esempio, che fa avvenire le cose e il mondo, che anticipa i sei giorni della creazione. Più in alto di così questo nostro strumento di comunicazione non è mai arrivato. Sopra vi è quel vertice non pareggiabile dell’effetto e della responsabilità della parola. La divinità si lega al creato con la parola e ne diventa responsabile”.

In questi anni giudica cresciuta l’attenzione dei cristiani per le Scritture?
“Difficile rispondere a questa domanda, forse… non saprei”.

Se così non fosse, vede il rischio che queste possano diventare una sorta di “lingua morta”?
“Le Scritture non diventeranno mai una lingua morta, casomai chiediamoci cosa fare per evitare che diventino una lingua criminale, usata per aizzare divisioni, crisi e conflitti”.

Daniele Rocchi
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