La sferza del Papa / La “vocazione” non è un business evangelico

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Nella vita di un consacrato l’aritmetica viene rovesciata e la vita di dedizione non va computata come il registro di un’azienda: se lo Spirito chiama ma noi siamo pochi e poche, non dovremmo sintonizzarci con Lui e avere il coraggio di una dedizione incondizionata invece di guardare al numero e procedere con metodi da schiavisti e negrieri? Per dirla chiaramente.papa con i gesuiti
 
Noi religiosi e religiose ci comportiamo come se la chiamata, conosciuta con il termine di “vocazione” e la conseguente risposta incarnata nella vita quotidiana, fosse un affare nostro, una sorta di business evangelico. Così cadiamo in trappola e non sappiamo leggere i segni dei tempi: la creazione continua del Padre e lo Spirito che sulle acque si libra come un uccello sul nido a proteggere i piccoli.
In fin dei conti non abbiamo né fiducia né rispetto per Dio e ci sostituiamo con piena sicumera al Suo posto.
Non abbiamo capito nulla della nostra stessa vocazione, di quell’irruzione di Dio nel nostro tessuto più interiore che ci ha sollecitati a seguirLo.
Seguire vuol dire riconoscere una traccia, non crearsi la strada, inventare un percorso, vuol dire drizzare le orecchie del nostro spirito per ascoltare lo Spirito e, rimanendo in una profonda postura orante, aperta, disponibile, farsi aiutare da chi ha già percorso il cammino e possiede più esperienza, a discernere nei nostri strati umani dove collocare l’invito e come darvi risposta. Saggia risposta.
La penuria attuale di “vocazioni” impaurisce, interpella sulla validità dell’incisività di una sequela evangelica in una società de-cristianizzata.
Si sa, la fame fa sragionare… si varca così il confine fra il progetto di Dio sulla persona e la necessità di mantenere in piedi ed efficienti le strutture create per esprimere il nostro supposto carisma.
La voce dello Spirito viene strozzata ed inizia il business che nulla a che spartire con il Vangelo annunciato e porta alla desolazione di quella che, giustamente, Francesco ha denominato “la tratta”.
Una sorta di deportazione di persone trattate da strumenti, dimostrando in realtà il grave passaggio da testimoni di una consacrazione a “faccendieri professionisti di pastorale vocazionale”, come ha detto monsignor Galantino.
Il dono ricevuto dov’è? Si è smarrito lungo la strada che mira alla propria realizzazione, al proprio tornaconto, magari mascherato in tornaconto della propria Congregazione, del proprio Ordine, indubbiamente sotto la voce “a beneficio della Chiesa”.
Bene ha ribadito monsignor Galantino svelando la gravità della sterilizzazione: il dono è sempre fecondo, solo se rimane dono, quando si riduce a produzione efficiente avvizzisce e subentra la mentalità del “mondo”, inteso come mentalità corrotta e egoista che il consacrato ripudia solo a parole, e non consente allo Spirito di costruire quel mondo che l’Altissimo ha creato perché le sue creature, uomo e donna, vi vivessero con gioia.
Il richiamo all’invito di Francesco può costituire una spinta, nel senso della corsa dello Spirito, a “essere seriamente impegnati a rendere testimonianza con gioia”, solo se sottesa vi è passione e lealtà che rendono credibile lo spendersi.
Come? Quanto capitato al giovane Bergoglio non dovrebbe mai più capitare e invece servire da monito per tutti, formatori e non, perché il formatore e la formatrice sono tali solo se parte viva di una viva comunità, orante, fraterna e al servizio di tutti: “Io – racconta Francesco – lo riassumo in un consiglio che una volta ho ricevuto da giovane: `Se vuoi andare avanti, pensa chiaramente e parla oscuramente´. Era un chiaro invito all’ipocrisia. Bisogna evitarla a ogni costo”.
Nella vita di un consacrato l’aritmetica viene rovesciata e la vita di dedizione non va computata come il registro di un’azienda: se lo Spirito chiama ma noi siamo pochi e poche, non dovremmo sintonizzarci con Lui e avere il coraggio di una dedizione incondizionata invece di guardare al numero e procedere con metodi da schiavisti e negrieri? Per dirla chiaramente.
Solo la presenza dello Spirito nella nostra vita quotidiana magnetizza e richiama chi lo Spirito sa ascoltare.
A proposito di ascoltare… anche la mia comunità, a quell’ora, non avrebbe risposto al Papa, forse ormai… romano negli orari… perché, quando siamo oranti per la Chiesa, l’umanità e per Lui stesso, ci apriamo al canale dello Spirito e non a quello della Telecom! Però ha riprovato!
Noi religiosi e religiose ci comportiamo come se la chiamata, conosciuta con il termine di “vocazione” e la conseguente risposta incarnata nella vita quotidiana, fosse un affare nostro, una sorta di business evangelico. Così cadiamo in trappola e non sappiamo leggere i segni dei tempi: la creazione continua del Padre e lo Spirito che sulle acque si libra come un uccello sul nido a proteggere i piccoli.
In fin dei conti non abbiamo né fiducia né rispetto per Dio e ci sostituiamo con piena sicumera al Suo posto.
Non abbiamo capito nulla della nostra stessa vocazione, di quell’irruzione di Dio nel nostro tessuto più interiore che ci ha sollecitati a seguirLo.
Seguire vuol dire riconoscere una traccia, non crearsi la strada, inventare un percorso, vuol dire drizzare le orecchie del nostro spirito per ascoltare lo Spirito e, rimanendo in una profonda postura orante, aperta, disponibile, farsi aiutare da chi ha già percorso il cammino e possiede più esperienza, a discernere nei nostri strati umani dove collocare l’invito e come darvi risposta. Saggia risposta.
La penuria attuale di “vocazioni” impaurisce, interpella sulla validità dell’incisività di una sequela evangelica in una società de-cristianizzata.
Si sa, la fame fa sragionare… si varca così il confine fra il progetto di Dio sulla persona e la necessità di mantenere in piedi ed efficienti le strutture create per esprimere il nostro supposto carisma.
La voce dello Spirito viene strozzata ed inizia il business che nulla a che spartire con il Vangelo annunciato e porta alla desolazione di quella che, giustamente, Francesco ha denominato “la tratta”.
Una sorta di deportazione di persone trattate da strumenti, dimostrando in realtà il grave passaggio da testimoni di una consacrazione a “faccendieri professionisti di pastorale vocazionale”, come ha detto monsignor Galantino.
Il dono ricevuto dov’è? Si è smarrito lungo la strada che mira alla propria realizzazione, al proprio tornaconto, magari mascherato in tornaconto della propria Congregazione, del proprio Ordine, indubbiamente sotto la voce “a beneficio della Chiesa”.
Bene ha ribadito monsignor Galantino svelando la gravità della sterilizzazione: il dono è sempre fecondo, solo se rimane dono, quando si riduce a produzione efficiente avvizzisce e subentra la mentalità del “mondo”, inteso come mentalità corrotta e egoista che il consacrato ripudia solo a parole, e non consente allo Spirito di costruire quel mondo che l’Altissimo ha creato perché le sue creature, uomo e donna, vi vivessero con gioia.
Il richiamo all’invito di Francesco può costituire una spinta, nel senso della corsa dello Spirito, a “essere seriamente impegnati a rendere testimonianza con gioia”, solo se sottesa vi è passione e lealtà che rendono credibile lo spendersi.
Come? Quanto capitato al giovane Bergoglio non dovrebbe mai più capitare e invece servire da monito per tutti, formatori e non, perché il formatore e la formatrice sono tali solo se parte viva di una viva comunità, orante, fraterna e al servizio di tutti: “Io – racconta Francesco – lo riassumo in un consiglio che una volta ho ricevuto da giovane: `Se vuoi andare avanti, pensa chiaramente e parla oscuramente´. Era un chiaro invito all’ipocrisia. Bisogna evitarla a ogni costo”.
Solo la presenza dello Spirito nella nostra vita quotidiana magnetizza e richiama chi lo Spirito sa ascoltare.
A proposito di ascoltare… anche la mia comunità, a quell’ora, non avrebbe risposto al Papa, forse ormai… romano negli orari… perché, quando siamo oranti per la Chiesa, l’umanità e per Lui stesso, ci apriamo al canale dello Spirito e non a quello della Telecom! Però ha riprovato!
Cristiana Dobner
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