L’attesa, il tempo “inutile” nella cultura della fretta

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“Vivere senza attendere è come vivere senza vivere. È la noia o la trepidazione. Molti nostri contemporanei vivono in una sorta di trepidazione dell’istante che cela loro il significato del tempo. La preoccupazione per ogni istante nasconde il pensiero sulla vita”. Così il filosofo francese Nicolas Grimaldi, ritiratosi dall’Università “quando gli studenti non vollero più i maestri”, in un’intervista pubblicata nei giorni scorsi sul supplemento di “Le Monde” dedicato alle religioni. Nelle sue parole di “intellettuale laico” c’è un allarme per lo smarrimento del significato e del valore dell’attesa nella vita dell’uomo di oggi. La cultura della velocità sembra avere il sopravvento sulla cultura della lentezza nella supponenza che oggi i risultati migliori si ottengono solo correndo.

All’inizio del tempo d’Avvento, tempo dell’attesa cristiana, anche un frammento di pensiero non credente può aiutare a ritrovare un significato. Grimaldi non si spinge, almeno nelle parole riprese, sul terreno della fede ma tra le righe esprime l’invito a guardare oltre l’effimero, oltre il rumore, oltre l’istante per scoprire il senso ultimo dello scorrere della vita. Un appello oggi controcorrente perché l’esperienza dell’attesa non appartiene alla cultura del risultato immediato, della fretta, dell’avere tutto e subito. E, quando l’attesa diventa obbligata, il problema è come ingannarla e non come viverla. A subire l’inganno è in verità l’uomo – soprattutto quando giovane – reso incapace di comprendere e gustare una grande occasione di crescita umana e spirituale.

Le nuove tecnologie della comunicazione non sono estranee alla logica della corsa e per loro stessa natura contribuiscono al far crescere la convinzione che il tempo dell’attesa sia un tempo sprecato e senza senso. La rapidità tecnologica aumenta la quantità delle relazioni ma rischia di impoverirne la qualità perché esse hanno bisogno di tempi lunghi per crescere, per consolidarsi e per farsi belle. Ci sono ricerche e studi a documentare una possibile deriva relazionale che non può sfuggire a chi si pone di fronte ai fenomeni culturali e sociali del nostro tempo con realismo e in un’ottica educativa.

L’Avvento ritorna come invito a ripensare l’attesa. Si propone come un tempo che annuncia un Arrivo e un Incontro indicando anche un metodo per prepararsi all’appuntamento. In questa prospettiva Benedetto XVI nella catechesi del 16 novembre, ricordando il ritmo sereno e lento della preghiera dei Salmi, ha richiamato un esercizio interiore antico ma più nuovo che mai. I Salmi sono parola e silenzio che “leggono” l’uomo e lo accompagnano nelle occupazioni di una normale giornata. Si dirà che è tempo inutile, tempo perso. È vero, è tempo inutile.

Non può essere diversamente agli occhi di chi sceglie i criteri dell’efficientismo. L’Avvento è tempo inutile per chi si ferma alla preoccupazione dell’istante e non riesce più a leggere e a vivere un tempo che apre allo stupore. Tempo inutile per chi attende niente e nessuno. Una condizione amara che fa scrivere a Nicolas Grimaldi: “Una sola cosa mi sembra ci mantenga in vita quando non si attende più niente: è l’attesa che un altro può avere di noi stessi, è qualcosa come l’amore”. Parole “laiche” e l’Avvento ne propone una traduzione nella fede dando un volto a quel “un altro” e a quel “qualcosa”. È il volto dell’Atteso che è anche il volto di Colui che attende. Il tempo inutile diventa il tempo che conduce allo stupore.

SIR

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