Le condizioni del teatro americano nella seconda metà dell’800 fino al 1915 erano piuttosto precarie, in quanto predominava la mentalità di attingere alle opere inglesi e francesi.
Avvenuto il rinnovamento, Broadway, teatro commerciale, accettò le nuove opere su temi radicali, perché, dal punto di vista economico, il guadagno era assicurato. Furono però i piccoli teatri a seguire i movimenti culturali europei e americani tra il 1920 e il 1935: venivano alla luce problemi sociali, in seguito alla crisi. Si affermava da una parte la filosofia del pragmatismo e del determinismo, ovvero l’accettazione della realtà, il riconoscimento di valori e interessi pratici su quelli teoretici, dall’altra, la tendenza a cercare valori al di fuori dell’esperienza. La fede nella felicità (nella Costituzione americana, la felicità è considerata un diritto dell’uomo) da conseguire attraverso azioni buone o servirsi dell’esperienza per rivedere e correggere una concezione errata dell’esistenza, si presta ad essere portata sulla scena, in commedia.
E’ del 1924 la commedia di Sidney Howard, “Sapevano quel che facevano”, dove lo spettatore assiste al capovolgimento del matrimonio riuscito: un uomo dinanzi al comportamento della moglie infedele, nel suo intimo matura un’imprevedibile decisione, cioè adottare il figlio illegittimo per riconquistare l’amore della moglie. La felicità di tre personaggi è conseguita in base al principio di convenienza, che prende il posto della moralità. E’ ovvio che tali commedie, con soluzioni pragmatistiche del conflitto interiore, fanno parte dello spettacolo leggero. La felicità viene raffigurata nel fare ciò che piace di più, magari dedicarsi a passatempi anziché al lavoro, al far denaro: ciò comporta il succedersi di scene molto comiche.
Un altro tipo di commedia nasce dal pensiero determinista: la realtà si presenta più potente dell’uomo; questi viene soggiogato da una catena di cause ed effetti, che trovano nella psicanalisi un terreno fertile. Il cosiddetto destino umano appare determinato da forze subcoscienti, atte ad entrare in lotta ed avere altrettanta preminenza rispetto alle forze che risultano all’esterno. In questo contesto s’inserisce l’attività drammaturgica di Eugene O’Neill.
Nato a New York nel 1888 e morto a Boston nel 1953, di origine irlandese, dopo esser vissuto da giovane in modo avventuroso, come marinaio, cercatore d’oro, giornalista, attore, in seguito ad un soggiorno in sanatorio, dove si dedicò a scrivere i “Drammi marini” (pubblicati nel 1923), s’iscrisse ai corsi di drammaturgia nell’Università di Harvard.
I temi delle sue opere sono ispirati a problemi sociali, derivanti dalla crisi: rappresentano, secondo il critico Heinrich Straumann ,”il simbolo più completo e potente dei conflitti. Non c’è nessun altro caso nella storia del pensiero americano in cui si noti un legame così evidente fra una crisi spirituale nello sviluppo generale delle idee e il punto di arrivo di una forza che esprima questi conflitti inconsciamente e tuttavia li rappresenti nella loro più autentica forma drammatica.”
Anche attraverso la vita di O’Neill ci accorgiamo che lo scrittore ebbe degli impatti con la realtà fino a quando giunse a capire la sua vera identità. Passò da un radical-socialismo a concezioni dettate da un’interpretazione religiosa vicina al Cattolicesimo. I bassifondi di New York s’intravedono attraverso il problema razziale e la rassegnazione religiosa nel dramma del 1924, “Tutti i figli di Dio hanno le ali”.
Il dramma interiore dell’uomo con i suoi conflitti si rivela nel dramma “Il grande dio Brown”, dove avviene il passaggio da simboli individuali a simboli generali, con l’uso di maschere, per rappresentare il rapporto tra l’individuo e il mondo esteriore. O’ Neill ha una concezione tragica dell’uomo: sia nel caso particolare di seguire le convenzioni e vivere senza amore, sia nel caso di seguire la propria sensibilità e la propria creatività, l’uomo sarà incompreso e perseguitato dal mondo delle convenzioni. Continua con altri drammi, tra cui particolarmente significativo “Marco dei milioni”, dove l’autore si scaglia contro il duro materialismo. In effetti, O’ Neill non solo è attratto da alcuni aspetti della civiltà, ma anche li ingloba nella sua interiorità, dove si dibatte il conflitto tra la forza degli istinti e dei desideri da una parte, e l’invito delle norme morali e tradizionali dall’altra. Da alcune opere furono tratti film.
Conosce la tragedia greca, Ibsen e altri autori moderni. In “Anna Christie”(1922) c’è dell’ottimismo pragmatistico nell’idea dell’adattamento alle esigenze ambientali, tramite l’amore.
Nella trilogia “Il lutto si addice ad Elettra” del 1931, si delineano amore e odio, in forma molto inasprita, con la consapevolezza di volersi fare giustizia da sé, in analogia con il mito greco della casa di Atreo. Tornato dalla guerra civile, il giudice e ufficiale, Ezra Mannon, viene ucciso da Christine, la moglie, che ha un amante, il capitano Grant. L’assassinio genera nella figlia Lavinia, che ama il padre, il desiderio della vendetta: convince il fratello Orin ad uccidere il capitano Grant. Christine, addolorata per la morte dell’amante, cede alla follia del suicidio. Lo stesso si verifica per Orin. Lavinia sopravvive alla tragedia, ma la sua vita, che è stata votata alla giustizia, risente tuttavia della rovina della famiglia.
Dopo un silenzio di 12 anni, l’autore, ancora sotto l’incubo della crisi, nel 1946, pubblica “Viene l’uomo dal ghiaccio”: rappresentazione di un ambiente di gente fallita, che vorrebbe scegliere il campo dei valori, ma subisce la forza di taluni elementi contrari. Infine, il dramma “Castelli in aria” analizza la complessità del desiderio umano, con personaggi dalla decisa individualità: secondo un autorevole giudizio critico, in tale opera c’è “il paradosso dell’effetto mortale determinato dalla verità e il potere vivificante dell’illusione”.
Un pensiero dell’Autore:” I pensieri …sono zanzare dell’anima.” O’ Neill è detentore del Premio Nobel 1936.
Anna Bella