Alla Camera la discussione del primo testo sul testamento biologico prende piede. La testimonianza di Marco Cesare Maltoni, responsabile delle Cure Palliative Ausl Forlì: “Vi accede un terzo di chi ne avrebbe bisogno”. Richieste di eutanasia a zero.
Non solo terapie anti-dolore in hospice. Quello che garantisce l’assistenza completa e umana nel fine vita, che azzera le richieste di eutanasia, è un’alleanza di cura tra personale medico e infermieristico e la famiglia. “Occorre mantenere vivo il desiderio d’infinito”, ripete il dottor Marco Cesare Maltoni, responsabile delle cure palliative dell’Ausl nel territorio di Forlì e coordinatore del tavolo di lavoro che dovrà portare alla costituzione della Rete delle cure palliative in tutta l’Ausl Romagna. Non si tratta solo di somministrare farmaci. Servono persone, innanzitutto, formate al difficile compito di accompagnare chi si trova nell’ultimo tratto di vita. Un rapporto che si alimenta e si modifica ogni giorno con la famiglia. Un rapporto nel quale le Dat, disposizioni anticipate di trattamento, che approdano oggi alla discussione alla Camera, piomberebbero come una specie di sentenza, pronunciata anni prima della malattia, quando magari non si aveva idea che nel fine vita, come dice il nome stesso, poteva esservi vita. Il problema è anche che per ora, secondo le stime del dottor Maltoni, solo un terzo dei malati che avrebbero bisogno di questo tipo di cure nel distretto può accedervi.
Dottor Maltoni, riceve richieste di eutanasia nella struttura che gestisce e dai pazienti che segue?
No. Direi che questa richiesta è assolutamente marginale. Mi sono capitati uno o due casi in carriera, che poi hanno cambiato prospettiva.
Le cure palliative possono essere considerate un antidoto all’eutanasia? Possono prevenire il desiderio di morte nei pazienti terminali?
Dipende. In Olanda la sanità è strutturata in modo che l’hospice sia un passaggio che poi porta, per chi lo vuole, al suicidio assistito, ma non è il nostro modo di concepirlo. Sta nella libertà dell’umano dire se la propria vita merita di essere vissuta. Ma è chiaro che deve riconoscerla in quello che vive.
Se chi gli sta attorno, gli fa capire che è molto più di un fascio di tessuti da gestire, si sente ancora “voluto alla festa”. Allora occorre mantenere vivo il senso d’infinito.
Chi ha fede quella domanda di significato è favorito nel mantenerla aperta, ma c’è in tutti. Allora, chi sta accanto a un malato terminale deve prima riconoscerla nella propria vita, per poi poterla presentare al paziente, nella sua condizione, di malato o di disabile. È proprio nelle crepe dell’esistenza, e le malattie lo sono per definizione, che si pongono queste domande. Per suscitare la risposta, occorre far crescere la domanda.
È un’alleanza tra professionisti, familiari e pazienti: si impara molto, a vicenda.
Quante persone oggi, rispetto a quelle che ne avrebbero bisogno, hanno accesso alle cure palliative?
La sfida è costruire tutti i nodi della Rete: quindi non solo l’hospice, ma l’assistenza domiciliare, di livello basico e specialistico, ambulatori e consulenze ospedaliere di cure palliative. I percorsi di cure palliative sono ormai individuati anche nei Lea, livelli essenziali di assistenza. Ma tutto questo richiede grandi cambiamenti strutturali e organizzativi, con infermieri e medici che si occupano solo di quello, e quindi una diffusa riconversione di personale. Finora ci si è concentrati sui pazienti oncologici in fase avanzatissima, ma le cure palliative sarebbero utili anche per i malati non oncologici e anche per pazienti in fase meno avanzata di malattia. Insomma, è stato stimato che in tutta l’Ausl Romagna potrebbero essere fino a circa 7mila i destinatari della Rete di cure palliative. Attualmente, accedono a queste cure principalmente le persone che si recano in hospice. Parlando del territorio di Ravenna, che ha tre hospice che curano in media un migliaio di pazienti l’anno, siamo circa a un terzo fra coloro meritevoli di cure palliative. Questo, come dicevo, non significa che occorre aumentare la disponibilità di posti negli hospice, che dovrebbe trattare il 20-25% dei pazienti.
Occorre invece iniziare a costruire il resto della rete (assistenza domiciliare, ambulatori etc.) che oggi quasi non c’è.
In tutto questo, come s’inserisce l’eventuale approvazione delle Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento, in quell’alleanza di cura tra medici, infermieri e familiari?
Dipende dal contenuto con le quali si riempie. Parto dal presupposto che, secondo me, la legge con tutta probabilità si farà. A mio parere, la formula più utile e realistica di disposizioni nel fine vita è quella che si chiama “pianificazione anticipata delle cure”, che già in parte si fa. Significa che il paziente, con la sua storia di malattia, concorda assieme al medico, in base alle tappe della malattia, le decisioni da prendere, con l’obiettivo di favorire una naturalità della vita e della morte che però, nella medicina moderna, si inserisce in una serie di scelte da effettuare. E in questo il medico deve tener presente aspetti tecnici, ma anche la soggettività del paziente.
Questo permette di rimanere all’interno di un rapporto di cura.
Le valutazioni dei processi decisionali si effettuano in un arco temporale vicino a quando possono accadere gli eventi, con una perdita di coscienza che in genere è progressiva. Le Dat, per come sono strutturate nel disegno di legge, essendo previste per persone in piena salute, prevedono una gamma troppo ampia di intervento e impongono decisioni prese in una fase molto lontana da quando si devono attuare:
ci sono studi su quelle utilizzate negli Usa che dicono che su 100 studenti di medicina, solo una minoranza riesce a formulare delle Dat complete.
Per quanto riguarda il contenuto, se le Dat fossero fatte solo per evitare l’accanimento terapeutico, sarebbero inutili, in quanto l’accanimento è già proscritto dal Codice deontologico. Si fanno per avere cure appropriate? Si ottengono concordandole con il medico. Se infine l’obiettivo fosse quello di promuovere l’eutanasia, in caso di disaccordo del medico, se le disposizioni fossero del tutto cogenti (cioè un vero e proprio testamento biologico in cui il medico non ha nessun margine di valutazione) entrerebbe in campo, necessariamente, il tema dell’obiezione di coscienza. Ma a differenza, per esempio, del tema dell’aborto, nel fine vita le condizioni sono tantissime e ogni singola azione potrebbe poter essere condivisa o obiettata, per la diversità di situazione clinica, per cui la legge rischia di mettere rigidità dove per natura ce n’è davvero poca.
Daniela Verlicchi, direttore di “Risveglio 2000” (Ravenna-Cervia)