“La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo”.
Renato Serra è un trentunenne ufficiale del regio esercito italiano che si appresta a partire per la guerra. È uno scrittore, ma soprattutto è un apprezzato intellettuale che gode della stima e dell’amicizia dei maestri dell’età giolittiana: Croce, Panzini, De Robertis.
Prima di partire e di perdere la vita nel corso della seconda battaglia dell’Isonzo, il 20 luglio di cento anni fa, scrive quello che può essere considerato il suo testamento spirituale: L’Esame di coscienza di un letterato. Non solo il testamento (che è possibile leggere on line) di un giovane scrittore che sa di poter non farcela, ma il manifesto – per certi versi funebre – di tutta una generazione vissuta nei primi quindici anni del ventunesimo secolo. E soprattutto la convinzione che milioni di morti non cambino nulla e che la guerra non sia la sofferta ma necessaria soluzione dei mali dell’umanità, come qualcuno andava dicendo.
Quella di Serra era una generazione che aveva affrontato una serie di disillusioni e di fallimenti. Stavano emergendo elementi filosofici irrazionalistici: la ragione da sola, dicono alcuni, non potrà mai decifrare una realtà fatta di volontà, di spirito, di azione.
Si afferma un pensiero che veniva dall’Ottocento ma che viene riletto in senso anti-razionalista, quello di Schopenhauer, di Kierkegaard, di Hegel, di Nietzsche; ma emergono anche nuovi maestri che sconvolgono le antiche certezze: Bergson, con il suo spiritualismo anti-materialistico, Freud con la sua teoria dell’inconscio, tra tutti. C’è dentro di noi, essi affermano, qualcosa che non dominiamo con la luce della ragione, che non possiamo capire fino in fondo. Siamo fatti non solo di materia e di pensiero, ma d’altro: qualcosa che è ingovernabile .
L’esame di coscienza di Serra può essere considerato la sintesi di tutto questo, fatta di perplessità, di pessimismo, di rassegnazione, di tentativo di dimenticare se stessi e nel contempo di conservare un’identità, di rifiuto della guerra e di condivisione del destino degli altri, soprattutto degli umili. Come Ungaretti, tanto per fare un nome.
Serra è convinto che la guerra non cambierà nulla, ma nello stesso tempo si rende conto che in fondo qualcosa cambia in ognuno. Non cambia il destino dell’uomo preso storicamente, ma dell’uomo in carne ed ossa che soffre, che piange, che muore. Come accadrà a Serra stesso.
È la testimonianza di un dissidio radicale, di un ragazzo che aveva realizzato come le cose passino e come nel contempo l’uomo rimanga sostanzialmente lo stesso.
Il giovane scrittore si rimette costantemente in discussione, pone sotto processo senza dirlo apertamente tutta la sua cultura e, soprattutto, si accorge di non avere più risposte. La sua è una ferrea concezione laica della vita, ma qui avviene quello che sembra un paradosso e che in realtà non lo è, perché vi sono sempre ragioni, non solo quelle della mente, dietro ogni cosa.
Quel testamento di un ragazzo che va a morire in battaglia come un eroe omerico, è spaventosamente vicino alla religiosità abissale dell’Ecclesiaste. La domanda di Qoèlet, “quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno/ per cu fatica sotto il sole?/ Una generazione va, una generazione viene/ ma la terra resta sempre la stessa” è fatta propria dal laico Serra, collaboratore della laica “Voce”, la rivista di punta per i giovani del tempo. Soprattutto quando anch’egli si domanda “che cos’è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?”.
Le domande radicali sul destino umano sembrano non conoscere steccati e confini di genere e di fede.
Marco Testi