“Gli occhi non vedono. Bisogna cercare col cuore”.
È una delle frasi che rimangono. Tra l’altro una delle più citate, il che non le fa perdere autenticità, del “Piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, ora riproposto da noi in una nuova traduzione, quella di Vincenzo Canella per l’editrice Ancora (189 pagine, con le illustrazioni originali dell’autore, introduzione e postfazione di Enzo Romeo). La peculiarità della nuova edizione di uno dei libri più letti al mondo è che nelle pagine a fronte sono stati aggiunti i passi biblici, dell’antico e nuovo testamento, che possano illustrare, commentare e mostrare alcuni “debiti” con le Scritture del narratore-pilota scomparso nel 1944 con il suo aereo nel mare della Provenza.
Si intravede qualcosa di nuovo in quello che è diventato un vero e proprio “classico” della letteratura, non solo per ragazzi? Come tutte le opere di rango, anche questa ha il potere di suggerire nuovi orizzonti interpretativi, e in fondo ha ragione il curatore quando afferma che “sono frequenti i simboli presi a prestito dalla tradizione giudaico-cristiana. Lo sguardo sulle cose ultime appare in lui fortemente influenzato dall’immagine evangelica del chicco di grano: solo la sua morte può far germogliare la pianta”.
Questo è il punto: anche di fronte al Vangelo o all’Esodo, il piccolo principe ha qualcosa da dire, un qualcosa che amplifica, attualizza elementi per sempre validi. Si prenda ad esempio il tema dell’attraversamento del deserto: lo troviamo nell’Antico Testamento, lo troviamo più volte nel Vangelo, lo troviamo in tutto il Novecento come condizione esistenziale (si pensi alla Terra desolata di Eliot o al Deserto dei Tartari di Buzzati). Ma rileggendo la storia del bambino perduto sulla terra, si ha di nuovo la sensazione che ci sia qualcosa ancora di non detto, un rumore sotterraneo che rivela una sorgente di senso nascosta nelle profondità dei simboli. Qualcosa che ha a che fare con il destino dell’uomo e che periodicamente attraversa il pensiero nelle sue forme più alte, che ha fatto parlare Schopenhauer di volontà infelice, Kierkegaard di angoscia esistenziale, Sartre di noia mortale. Qualcosa che ha a che fare con il mistero dell’infelicità, su cui tanto si è macerato, ad esempio, Leopardi. È possibile, si chiedeva il recanatese, che il pensiero non sia altro che un dono mortale, che da una parte ci differenzia dagli animali, e dell’altra però ci rende infelici perché ci mette di fronte ogni giorno alla sofferenza?
Il piccolo principe caduto sulla terra ci offre una possibilità di risposta. La meno edulcorata, la meno superficiale: l’accettazione della fine, intesa come dono agli altri. In qualche modo una risposta a Nietzsche che predicava l’accettazione della finitudine dell’esistenza fino a farla propria. Qui l’accettazione della vita e della morte passa attraverso il riconoscimento dell’altro non come concorrente al consumo della razione giornaliera di cibo, come tendevano a credere Malthus, i darwinisti, Schopenhauer e molti altri, ma come dono prezioso proprio perché raro nella sua finitudine.
Alcuni hanno visto nella morte del piccolo protagonista e in quella medesima di Saint-Exupéry, che continuò a volare nonostante il parere contrario dei superiori, una allusione all’eutanasia.
Se la si intende nel senso di una gioiosa affermazione della vita e della morte, dell’accettazione del loro gioco che talvolta impone di prendere decisioni a favore di ideali condivisi, allora è così. Ma allora non è più eutanasia. La vita è prendere ma anche offrire, questo ci suggerisce il fanciullo che morendo torna sul suo piccolo pianeta, e questo ci suggerisce il pilota dongiovanni nella sua libera scelta di dare la vita per un’Europa libera: i grandi pessimisti hanno, paradossalmente, ragione. Ha ragione Nietzsche a vedere una danza nell’accettazione della mortalità, ma non nelle conclusioni: bisogna dire sì a questa vita che ci è capitata, con gioia e soprattutto prendendo lezioni da qualsiasi cosa, anche da un fiore, dalla sabbia del deserto, da un bambino che vaga alla ricerca della sua terra cui anela tornare.
Quel suo accettare il morso del serpente è un sì alla danza della vita e alla sua fine, alla volontà del proprio Creatore, unico modo di tornare al giardino perduto.
Marco Testi
(Fonte: AgenSir)