“Yisel mi raccontò di quando sua madre le aveva insegnato che l’amicizia è un insieme di punti magnetici sparsi per il mondo. E che i punti sono sempre in contatto. Non c’è bisogno di telefono, né dell’aereo. La madre di Yisel diceva che si chiama amore”.
Yisel è una delle donne che Vittorio incontra nella sua vita di chitarrista, forse quella più importante, perché finalmente non desiderata come possesso personale, ma frequentata “senza il minimo desiderio di piacerle”, solo per la gioia di parlare di ridere insieme, e di fare anche del bene agli altri. “Tretrecinque” (Einaudi, 407 pagine) di Ivano Fossati non è la prima esperienza narrativa del cantautore, che nel 1991 aveva messo mano ad un singolare “Il giullare” per le edizioni Millelire-Stampa Alternativa, ma rappresenta la riemersione dopo la grande rinuncia alla musica annunciata nel 2011.
Non più tessuti strumentali, microfoni, prove, viaggi d’Occidente. Soprattutto perché di tutto questo Fossati ora parla, anzi scrive. La Tretrecinque è una splendida chitarra Gibson a cassa semiacustica, rosso sangue, dalle forme classiche, che riesce a tenere uniti jazz e ballo, lenti e rhythm and blues, rock e melodie d’amore con la sua versatilità, assai distante dai suoni più acidi e freddi di altre chitarre.
È lei l’oggetto del desiderio del racconto-fiume, un vero e proprio novecentesco romanzo di formazione (in cui forse si poteva eliminare qualche pagina non strettamente essenziale), che segue la vita del narratore, dalla fanciullezza fino agli oltre sessanta: quell’età che, come abbiamo accennato all’inizio, permette amicizie disinteressate con donne talmente in gamba da rendere superflue altre attenzioni. Ma i modi del racconto forse deluderebbero gli appassionati soprattutto dei testi del cantautore – ora scrittore – ligure. A torto. Perché il Fossati scrittore rivendica la sua alterità dal passato, e il suo diritto a trasformarsi in altro nel trascorrere del tempo e dei modi di esprimersi. Ecco: l’accettazione del tempo è probabilmente la cifra più vicina al Fossati che conosciamo. Un’accettazione tutt’altro che indolore, perché presuppone la comprensione del tramonto, del cambiamento, della lontananza. Una volta accettato il destino, ecco che la lontananza rivela il suo segreto, la sua necessità di essere legame nonostante lo spazio, la frammentazione, il dolore.
Il linguaggio con cui Fossati esprime questo sì alla vita, è asciutto, teso verso il parlato, sfugge alle retoriche neo-decadenti (il viaggio, la contemplazione della morte, la pulsione verso il nulla), e si tiene vicino alle cose, senza sminuirle, anzi, donando loro un senso ancora e sempre segreto.
Anche il colloquio con chi ci ha lasciato assume la dimensione di una partecipazione al ciclo della vita attraverso la comprensione del bene degli altri, anche quando gli altri sono la tradizione anonima, la vita delle campagne del Vercellese: “Quando ero bambino i contadini delle cascine dicevano che nel sonno si possono sentire le voci di tutti, sia dei vivi che dei morti. Poi dicevano che in mezzo al vento si può riconoscere la voce del diavolo e dove c’è proprio tanto silenzio anche quella del Signore”.
Potremmo dire che alcune cose del Fossati di prima rimangono impigliate in quelle dello scrittore d’oggi: il senso del viaggio non come vocazione eroica ma come necessità, la visione dell’amore inteso come incontro contraddittorio che ha in sé gioco e pena, progetto e inutilità, la tentazione a guardarsi indietro e domandarsi come sarebbe andata con altre scelte, altri luoghi, altri incontri.
Il discorso narrativo naviga tra ricerca di senso e tentazione di abbandonarsi alla coscienza popolare: Vittorio chiede al buon Dio di fargli passare i dolori alle mani per poter continuare a fare quello che ama di più, suonare la sua Tretrecinque, e alla fine deve ammettere, come un buon contadino della Bassa che “le mani sono tornate perfette. Ho fatto bene a proporre il mio accordo, quello lassù è un tipo di parola”.
In più, la felicità di ritornare ai tempi dei bluesmen del Delta, della prima ondata del blues bianco inglese, quella dei Them e degli Animals, dei Rolling Stones, dello Spencer Davis Group, tutta gente che consigliamo vivamente ai più giovani di ascoltare, per capire come dal gospel si sia arrivati alle grandi stagioni della musica popolare della seconda metà del Novecento.
Marco Testi