Leggere è pensare / Un altro folle di Dio. Fratel Ettore, profeta degli ultimi, nel ricordo di Teresa Martino, sua erede

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“Fratel Ettore e i santi hanno una caratteristica in comune, trovano particolarmente attraente tutto ciò che al pregiudizio appare una causa persa, e non per trovarvi strampalate compensazioni, ma perché imitano Te”.

La “Preghiera di una causa persa”, da cui abbiamo tratto le parole iniziali, è la giusta prefazione al frettore-imgricordo di Fratel Ettore, il “profeta degli ultimi”, il camilliano che dedicò tutta la sua vita all’accoglienza dei poveracci, dei disadattati, degli affamati e dei folli. È contenuta, non a caso, nel libro “Fratel Ettore. I miei giorni con il profeta degli Ultimi” (San Paolo, 132 pagine), scritto proprio da colei che Ettore Boschini ha scelto per continuare la sua opera, Teresa Martino. Anche la storia di suor Teresa ha il fascino della conversione, da attrice – e di rilievo – nel panorama del teatro italiano a compagna di viaggio di un altro del folli di Dio che hanno popolato la storia della Chiesa. Perché Ettore, che era nato nel 1928 a Belvedere di Roverbella, in provincia di Mantova, aveva conosciuto da bambino la fatica dei poveri, ed era stato costretto a lavorare nelle stalle e nelle campagne fino a rompersi, letteralmente, la schiena: si porterà dietro per tutta la vita un continuo dolore, conseguenza di quei prematuri sforzi.

In genere quelle esperienze suscitano una reazione che porta a desiderare una posizione sicura, a cercare il successo per compensare le umiliazioni e le mancanze dell’antica povertà. Dopo qualche tempo di dissipazione, invece, Ettore scelse la via della pietà. Decise di entrare nell’ordine dei Camilliani, nati sull’esempio di un santo che si era dedicato anima e corpo ai malati, passando agli occhi di molti, anche lui, per matto.

Anche Teresa decide dopo un lungo periodo di crisi professionale e esistenziale di dargli una mano, resistendo alle obiettive difficoltà di quel dare una mano: dal fascino della poesia teatrale alla sporcizia, alla follia, alla disperazione.

Eppure, abbattendo luoghi comuni che regnavano anche in quegli ambienti, la donna che, secondo molti, non doveva resistere alle difficoltà obiettive di quell’ambiente, ha mostrato a tutti che la follia di Dio paga e non solo ti porta dove tu non immagineresti, ma ti rende testata d’angolo, da pietra scartata che uno riteneva d’essere.

Il libro si chiude con la morte di fratel Ettore avvenuta nel 2004, lasciando una strana sensazione di inadeguatezza. Rispetto a quello che intendiamo abitualmente per Carità.

Teresa ci mostra una forma di cura che non è più la carità “dall’alto” ma partecipazione all’altro: non solo empatia, ma condivisione fisica, reale, totale.

Una radicalità che non ammette più divisione di spazi e di classe. Fin da quando, negli anni Settanta Ettore sfruttò un ambiente dei sotterranei della stazione centrale di Milano per accogliere i laceri e i malati di strada, fu chiaro che la storia non si ripete, per fortuna, ma cambia gli attori che mandano lo stesso messaggio di rottura, come san Francesco e san Camillo de Lellis.

Condivisione fino alla fine, fino all’inseguimento nei meandri dove l’altro si è perso, rischiando di perdersi a propria volta: è questo l’unico modo, secondo Ettore, e anche Teresa, di compiere il cammino radicale alla ricerca dell’altro.

Di Ettore rimane un’immagine davvero illuminante: colei che è stata prescelta per guidare le comunità da lui fondate, lo coglie mentre sta spiegando a degli ospiti una serie di quadri che illustrano le Scritture. Ettore, che stava preparando il pranzo per tutti, “è ancora in pigiama canottiera e una giacca di lana infilata al volo, più un grembiulone preso in cucina. Con una mano tiene la pentola e con l’altra brandisce il mestolo; così messo, va spiegando la Sacra Scrittura illustrata”.

Un’istantanea che dice più di qualsiasi altro discorso la natura di un uomo che voleva andare oltre le frontiere, quelle della cultura, quelle di classe, e ha tentato di ritornare all’unicità dell’essere, ad iniziare dalla sua dignità essenziale: quella del cibo, della pulizia, della cura di sé e degli altri.

Marco Testi

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