Libia / Un fallimento politico-diplomatico la Conferenza di Palermo

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Cosa resterà della Conferenza di Palermo sulla Libia? Forse una foto, forse la consapevolezza dell’inizio di un percorso. O forse, solo il ricordo degli annunci della vigilia. Lo potrà dire con certezza solo la storia, e nello specifico le elezioni nazionali libiche che con tutta probabilità si terranno nella prossima primavera. Ma le impressioni di un sostanziale flop, per il summit fortemente voluto dal governo Conte, non possono essere ignorate.

Partiamo dalle premesse. La conferenza è stata organizzata con soli due mesi di anticipo, un battito d’ali per i tempi della diplomazia. Gli inviti inoltrati ai principali leader internazionali coinvolti nella questione libica non sono stati solo tardivi, ma anche imprudentemente annunciati alla stampa prima ancora di qualsiasi conferma da parte dei diretti interessati. Ciò ha esposto la nostra diplomazia a comprensibili pressioni e aspettative, e soprattutto non ha pagato: benché la data scelta per l’incontro fosse il 12 (e il 13) novembre, ovvero all’indomani delle commemorazioni di Parigi svoltesi con la presenza di Trump e Putin, l’assist non è stato raccolto e a Palermo sono mancati i leader più attesi.

Al di là dei problemi organizzativi, le presenze alla conferenza testimoniano i differenti livelli di interesse nei confronti della questione libica. La Francia, in prima linea ma al tempo stesso in competizione con l’Italia, ha mandato il proprio ministro degli esteri, Le Drian; la Russia, crescente protagonista nell’area, non ha inviato Putin ma due delegati di alto livello, il primo ministro Medvedev e l’inviato speciale per il Medio Oriente Bogdanov; l’Egitto e la Tunisia, Paesi confinanti con la Libia, erano rappresentati dai propri presidenti (Al Sisi ed Essebsi). Dall’altra parte, però, si è vista una Germania  scettica o comunque più interessata ad altri dossier mediterranei, come quello siriano, e degli Stati Uniti in parziale smobilitazione dal Medio Oriente e comunque mai in prima linea sul fronte libico: entrambi i Paesi sono stati rappresentati da un semplice sottosegretario.

Nessuno si aspettava una risoluzione del conflitto che imperversa in Libia da oltre un lustro, ma qualche passo in avanti sì. Eppure, con il passare delle ore, la delusione ha preso sempre maggior piede. Anche a voler tacere su alcuni episodi (come quello di Alì Saidi, delegato del parlamento di Tobruk, che ha lasciato i lavori denunciando una “sceneggiata”), non si può non tener conto del fatto che le delegazioni libiche abbiano lavorato su tavoli separati o che la Turchia abbia abbandonato la conferenza per protesta.

A peggiorare ulteriormente le cose, è stato l’atteggiamento tenuto da Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che assieme al capo del Governo di Accordo Nazionale al-Serraj (stanziato in Tripolitania) sarebbe dovuto essere il protagonista della Conferenza. Lo è stato a suo modo: assente fino all’ultimo, arrivato a Palermo su probabili pressioni egiziane o russe, ha negato il proprio personale coinvolgimento nei lavori contestando la legittimità di alcuni invitati (principalmente, il Qatar e membri della fratellanza musulmana). Alla fine, comunque, si è prestato alla foto di rito con il suo rivale al-Serraj e il premier Conte, ma senza che ciò costituisca un particolare significato: la medesima foto, con il presidente francese Macron al posto di Conte, era stata scattata un anno fa a Parigi.

Le responsabilità dell’insuccesso sono solo in parte del nostro attuale governo. La crisi libica si protrae da anni e gli interessi coinvolti sono così ampi e contrastanti da rendere arduo qualsiasi tentativo di pacificazione e di sviluppo. L’Italia ha il merito di aver tenuto un’ attenzione costante sul Paese nordafricano, benché spesso tale impegno sia legato a mere esigenze di controllo dei flussi migratori o petroliferi. E se è vero che la comunità internazionale riconosce ormai in ampia misura il nostro primato, è anche vero che non si tratta di una condizione immutabile su cui ci si possa passivamente adagiare. L’impegno italiano richiederà uno sforzo sempre maggiore e dovrà evitare il più possibile altri passi incerti, in un quadro diplomatico così delicato.

Pietro Figuera

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